11/05/09

A metà della meta

di Lobanowski 2

Domenica 10 maggio, Ternana-Foggia 2-2

Venezia mi ricorda istintivamente Istanbul. Lo cantava il Vate. E decine di impulsi cerebrali a far schizzare i pensieri associativi, le scrollate di testa, i tentativi di pensare ad altro, di invadere la mente di soavi mollezze, non riescono a chetarmi. Terni mi ricorda istintivamente Cremona. Stesso calore afoso, a strozzare l’ossigeno; stesso senso di epidermide in fiamme; stessi volti attorno, che fingono di pensare ad altro. Solo l’umidità è differente. Ma la cappa di piombo, il fiatone, la voglia di non guardare, sono le stesse. Stessi palazzi addosso al mare, stessi tramonti che si perdono nel nulla. Pensare ad altro, guardare altrove. Come una terapia: novanta minuti, poi passa.

Direzione Lucera, dritti a costeggiare la fortezza angioina, Campobasso, svincolo per Isernia, Venafro per la più classica delle soste a mozzarella e caffellatte, San Vittore, autostrada fino ad Orte, Terni. Ma gli strateghi sono arrivati prima di tutti, ed hanno le idee chiare, circa la confusione. Le cartine, due, aperte sul banco. Il furgone fuori, a sbuffare d’impazienza. Lo stato maggiore attorno alle carte, a studiare l’orografia, le asperità del territorio. Dita scorrono sui monti e gli avvallamenti. Come i francesi ad Austerlitz. Conviene l’Adriatica, sento dire. Usciamo a Chieti, tagliamo per L’Aquila. Il dibattito è serrato. Giuseppe propone di risparmiare ulteriormente imboccando l’A14 solo a Termoli. Nicola lo scavalca, asserendo che fino a Vasto la statale è ottima e ben tenuta. Sguardi obliqui. Provo ad inserirmi, ma è deciso. Daniele si fa largo e dice la sua. Indica un punto di partenza, e uno d’arrivo. A giudicare dai movimenti della mano sulle carte, propone di partire da un punto qualsiasi del Subappennino e puntare – mediante un traforo invisibile – direttamente sull’Umbria. Deve essere una specie di druido.

La città che ci lasciamo alle spalle è un avamposto d’estate. Un preludio di bella stagione. Nei suoi palazzi dai muri costellati di facce candidate, si stanno risvegliando i giornalisti, i critici della prima ora, i tiepidi, gli occasionali. Pronti, al contempo, a godere intimamente del passo falso come a invadere le strade, alla stregua dei baresi che hanno festeggiato la serie A in cinquantamila, l’altra sera. Quando allo stadio, per anni, non sono mai stati più d’un migliaio. La statale, non appena incornicia il mare, diventa balneare. Rasentiamo la costa sabbiosa, le famiglie distese al sole, gli arzilli nonnetti che fanno footing. Sembra l’America. E non posso fare a meno di pensare a quanto siano diverse le vite. Quella parte di vita – quanto meno – che ognuno può scegliersi, lontano dai condizionamenti del determinismo. Svincolo, casello, adesivo, biglietto. La sagoma nera della macchina di Giuseppe guida la carovana. Dietro, nel Trafic, dormono i nottambuli. Mattia si sveglia, si carica: Dai che vinciamo, dai che vinciamo, dai che vinciamo. Una specie di preghiera laica. I monti, l’Abruzzo, la figura del Gran Sasso, le cime ancora innevate. Fa strano vederle da qui, dal caldo pressurizzato dell’abitacolo. Che nessuno osi togliersi le scarpe.

Cominciano a piovere le telefonate. I cellulari non smettono di trillare, vibrare, lanciarsi in ardite melodie, sempre più complesse. Stanno scendendo da Bologna, da Firenze, da Torino. Salgono da Roma. È un continuo tentativo d’organizzare, di coordinare, di dare forma all’inevitabile caos. Ben sapendo che è proprio la confusione il fulcro dell’agire. All’ultimo autogrill ci sfila davanti un intero contingente di carabinieri. Al banco del bar, uno di loro continua a fissare la maglietta di Jordan: Manifestazione?, chiede. No, normale esodo di foggiani, la risposta. Passo accanto alla camionetta per raggiungere i bagni. Sento uno dei due agenti chiedere al collega: Dove gioca il Foggia? E l’altro rispondere esattamente. Sono le 13 e puntiamo su Rieti. Vorremmo prendere un aperitivo in santa pace, e tentare di informarci su come stanno le cose: dove sono gli altri, tutti gli altri. La strada provinciale che imbocchiamo si perde nel verde, aprendo squarci di castelli inerpicati e paeselli da presepe. Pittoresca, l’ha definita la nostra mappa. Rieti ha i tre archi nelle mura, come Foggia. Che però non ha le mura. Qualcuno dorme ancora. Ma i bar sono tutti chiusi, non vale la pena sostare. L’ultimo tratto, e per la prima volta sento la tensione afferrarmi la gola. Ci siamo quasi, siamo a due passi dall’obiettivo. Basterà arrivare, e sarà palla al centro. Ci chiama Chiara: “Uscite a Terni Ovest”. Mi chiama Antonio il Bolognese: “Dove dobbiamo uscire?”. Risposta: “A Terni Ovest”.

La carreggiata che percorriamo sembra restringersi al nostro passaggio, come un illusionismo. File di case sulla destra e sulla sinistra, senza traverse, biciclette. Bar aperti, alimentari, un lago. È la strada sbagliata, ne siamo certi. E va bene che siamo in Umbria, ma qui si esagera col bucolico. Cerchiamo la circonvallazione, ma sappiamo già che non la troveremo. Adesso siamo noi a guidare la spedizione. Terni. Il cartello indica il centro. Siamo sbucati in città, cazzo, non è una scelta saggia. Sarà difficile spiegare che non di scelta si è trattato. Siamo in territorio ostile, e vaghiamo. Una freccia verso l’ospedale, un’altra verso la stazione dei carabinieri. Inversione di marcia, mentre il pomeriggio ternano sembra assolato quanto deserto. La voce stadio appare tra dozzine d’altre. Ognuno al suo finestrino, pronto a dare l’allarme, a scattare per difendere il bagaglio a mano. Un cartello indica il parcheggio del settore ospiti. Forse ci siamo. Ma la strada è madre d’esperienza, e per giungere al nostro covo occasionale, c’è da passare attraverso le fauci delle fere. Tribuna Est, la casa dei Freak, un tempo. S’apre sulla nostra sinistra, subito oltre il marciapiede declinante che delimita il vialone. Un ragazzo ci vede e si blocca. Sta per chiamare a raccolta, lo sentiamo. Ma il semaforo è giallo, lampeggia, e noi passiamo. Due bar sulla destra, coi rossoverdi fuori. Circumnavighiamo, fino all’imbocco del settore. Due steward e due poliziotti. Biglietti, chiedono.

Sono teso di tante tensioni in una. Indefinibile, inestricabile, senza appigli. Il furgone nel parcheggio, l’incontro gli altri. Un ragazzo che non conosciamo personalmente, parte della brigata romana, ci mostra la nostra nuova t-shirt. Un precedente assoluto. Ci siamo tutti. E c’è il tornello, unico e solo esemplare della tribunetta. C’avevano provato anche qui, dopo Potenza, a fare il colpaccio: 15 euro per un tagliando di curva. Prevendita esclusa. Poi si sono ricreduti. Uno per volta, e la fila s’allunga. Si intravedono bandiere rossonere, mentre gli addetti indirizzano le macchine nel parcheggio. Teso. Un po’ per la partita, per l’esito in sé: non oso immaginare cosa sarebbe giugno senza calcio; e neppure mi va di pensare a che ritorno mesto s’aprirebbe sul nostro orizzonte prossimo. Ma un po’ di tensione è dovuta anche al contesto. Un anno fa gente di nessun conto mise in giro la voce di una nostra fraterna amicizia coi ternani, amicizia cementata dalla comune passione politica, che ci avrebbe portato nel settore ospiti dello “Zaccheria” a sostenere i compagni. Contro noi stessi, in pratica. Falsità, infamità, piccolezze. I ternani a Foggia esordirono con un Bandiera rossa che doveva, dal loro punto di vista, scavare un solco profondo tra la sinistra Terni e la destra Foggia. Cliché traballanti, validi come stereotipi, ma nulla di più. Fatto sta che sono teso. Perché la cosa potrebbe ripetersi, lacerandoci nell’imbarazzo. Per questo motivo, abbiamo chiesto ad alcuni amici di restare a casa. Non sarebbero, probabilmente, stati in grado di comprendere questo mondo complesso e distante. Biglietto sul sensore, codice a barre del tifoso, dentro. Ma quanti gruppi ci sono a Foggia?, chiede un poliziotto. Tanti, è la risposta. Rampa di scale, dentro.

Il “Liberati” è un effetto ottico. Con la curva interrotta al centro, e tre anelli di cui i due superiori completamente futili, è un sogno delirante. La tribunetta dove siamo, poi, ha lo stesso effetto di un comò in una pompa di benzina. Alta ma digradante, dolce. Tanto dolce da far si che agli ultimi gradini la porta è oscurata per metà dai cartelloni pubblicitari. C’è gente. Non saremo i mille previsti. Probabilmente siamo appena la metà, ma è meglio così. Ci facciamo largo, ci compattiamo. Siamo tanti. E la prima sensazione di fastidio mi avvolge. La cappa, la cappa maledetta. La sento, l’avverto sotto pelle. Ho caldo da morire, e mi dedico alla cura delle bandiere per non pensarci. Pensare ad altro, guardare altrove. Le squadre in campo. Un lungo sospiro a scacciare la tensione, il battimani metallico. La tensione c’è, anche se nessuno ha ancora dato dei comunisti di merda ai ternani. Ed è un motivo di preoccupazione in meno. Un, due, tre, il Foggia passa. Al terzo. Antonio mi dirà che è stato bello sentire il settore. Io resto immobile. Fisso terra. Non ce la faccio a lasciarmi trascinare, ho ancora troppa paura addosso. Sono un innamorato che ha conosciuto la sfiancante durezza dell’illusione, e tenta di non caderci più, di non cascarci a peso morto. Venti minuti e vedo il Foggia raddoppiare. Intorno è il putiferio, ma non ci casco. Un colpo di testa di Salgado, mi dicono, e un miracolo del portiere. Il 3-0 sarebbe stata una mezza ipoteca. Pensiero compulsivo: rimpiangeremo questo momento?

Il Foggia è tutto per me, Il Foggia è tutto per me, E io lo so, Perché non resto a casa. Dieci minuti, a stabilizzare, equalizzare, risollevare il coro. E tutti negli spogliatoi. Caldo, cappa. Due a zero, in vantaggio all’intervallo. Chi resta sugli spalti parla al cellulare agli amici che sono davanti alla tivù. Venezia mi ricorda Istanbul. Sciarpe e bandiere, si dondola. La Cavese pareggia a Benevento. Finisse così saremmo ai playoff. Vedo dondolare, dondolo, e l’emozione diventa insopportabile. Mi scopro gli occhi gonfi. Poi segna la Ternana. Non è successo niente. Calma, ragazzi, calma. È dura tranquillizzare, col pathos a mille la paura che ti morde il culo. Ma bisogna farlo. Tranquillizzare e distogliere, incitare se è il caso. Incitare per distogliere. Pensate al coro, pensate a cantare. Calcio d’angolo per la Ternana. Spiovente, un colpo di testa, la rete che si gonfia. Non è facile spiegare le facce, se non si è lombrosiani. Ma è la botta più dura ricevuta da un anno a questa parte. Venezia, Venezia… Stomachevole come un gancio all’addome, rincoglionente come una sniffata di colla Artiglio. Grido e non sento la mia voce. Parlo e nessuno si muove, ognuno perso dietro il suo corteo di ricordi. Angioletto è rosso come un reduce da una rissa. Lello è piegato a metà. Risentiamo del cambiamento d’aria. I pellegrini, in alto, s’ammutoliscono, smettono di scimmiottare canzoni. Restiamo in pochi. Noi e i soliti di sempre. Mollare adesso sarebbe impensabile. Ma fa male. Porco Giuda se fa male…

Passano i minuti. Speriamo sia il solito biscotto di fine stagione. In fondo, la Ternana ci ha spianato la strada ai playoff, l’anno scorso. Qualcosa le dobbiamo. Indubbio. Ma non le costava niente, all’epoca. Non s’è mai saputo di uno che per ricambiare ad un pacco di cioccolatini, per quanto pregiati, si fa espiantare un rene. La Ternana, probabilmente, si salverebbe anche a quota 40. Ma noi resteremmo in C1, inoperosi da giugno. E vincevamo 2-0. Ora siamo 2 pari, e nessuno gioca più. Tranne uno sulla fascia destra, uno che continua a saltare un tale che mi dicono essere Colombaretti. Poi un boato, dall’alto in basso, come una frustata. Il Benevento, pare abbia segnato il Benevento. Non mi fido, domando. È vero. Cristo, si. Adesso va bene anche il pari. Adesso si che gradisco un biscotto. Che sarà, sarà, Ovunque ti seguirem… Un conto alla rovescia che sa di sudore freddo e notti sudate. È finita. Abbiamo agganciato la Cavese, siamo in vantaggio per via della classifica avulsa, e bisognerà battere il Crotone, sicuro del suo terzo posto, domenica allo “Zaccheria”. Adesso sembra tutto facile e, mentre la squadra arriva sotto la curva, tutto appare perfetto. La tensione si scioglie in qualche lacrima che reprimo. Sono sudato e probabilmente puzzo di terra bagnata. Guardo in aria. Sospiro. La cappa si sta allontanando.

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