14/09/09

Foggia-Lanciano o Dell'età adulta

di Lobanowski 2

Venerdì 11 settembre, ore 23:30

Porte chiuse, blindate. Lo sapevamo. Ma ci siamo lo stesso. Non potevamo mancare. L’appuntamento è di quelli che si onorano, costi quel che costi. Macchine nel parcheggio. In prima linea quelli con le vettovaglie, in coda quelli con le bottiglie e i bicchieri di plastica.
Dalle notizie che trapelano, in campo, oltre il limite invalicabile, c’è sofferenza, tensione, passione. Uno sforzo agonistico che dura da un po’, oramai. Non ci aspettavamo niente di meno. E affolliamo il settore. Sudore, pathos, emozione. Tutto mischiato, tutto compreso.
L’impianto – saturo di indicazioni, frecce, cambi di direzione – trasuda anni Ottanta. Odora di brodo. Fa un caldo che non ci si crede.
Le avanguardie salgono al terzo anello, nel settore precario che ci è stato riservato, immerso in una oscurità da thriller scandinavo. Noi, in quattro, restiamo giù a fare da balia al pastore tedesco in miniatura. Retrovia e carriaggio. Il buio circonda la struttura. Rare luci da serenate alle finestre. Il clima ideale per questo genere di sfide. Siamo fuori, ma non conta. Del resto: i primi dieci minuti, i primi dieci minuti, i primi dieci minuti, non li vediamo mai. Senza contare che il nostro esserci-non esserci può essere anche letto come una protesta sfacciata contro il calcio moderno. E sia.
Neanche il tempo di sintonizzare le radioline, di scambiarci due chiacchiere sulle stagioni, l’invariabilità della natura, le dure leggi del mercato. Che dall’alto giunge il boato.
Uno sguardo fugace e carico di speranza. Occhi negli occhi, negli occhi e negli occhi ancora. Non c’è bisogno di aggiungere parole. Sono i nostri. Inconfondibili. È fatta.
Dopo cinque ore di travaglio, Manuela è diventata mamma. Angioletto papà. Noi zii.
Ascendiamo al terzo anello.
Gooooool!

Nell’atto di venir fuori dalla sala, il medico ha aguzzato lo sguardo per capirci qualcosa oltre le lastre spesse dell’oscurità svedese di cui sopra. Di fronte deve essergli palesata una selezionata schiera di fuoriposto, più adatti a un chiosco che a un reparto maternità. Non a caso, si è ritratto e alla prima donzella adocchiata ha confidato quel che aspettavamo con ansia: - La signora ha partorito.
Ceska, che era la donzella in questione, ha assunto una faccia da schiaffi ed ha chiesto un supplemento d’informazione: - Davvero?, ha concluso. E quello, serio, di rimando: - Perché, aveva dubbi, signorina? La notizia s’è propagata come un monsone nel Sud-Est lungo la dorsale ospedaliera.
Il boato.

Avevamo pensato a lungo a cosa avremmo fatto. Bandiere, torce, striscioni. Ed ora che ci siamo, non possiamo che recriminare sull’orario e il contesto. Accendere un fumogeno e far scattare un coro a mezzanotte dell’undici settembre, nel corridoio, accanto ad un’altra famiglia in tensione per un travaglio complicato, non sembra proprio il caso. Rinunciamo a malincuore, ma ci facciamo riconoscere ugualmente. Nei limiti del possibile.
L’infermiera fa capolino con una specie di teca con le rotelle. Due buchi appena per il respiro del piccolo. Due passi ed è inghiottita dalla folla. “Ma quanti padri ha questo bambino?”.
I cellulari inviano frenetici segnali agli assenti (presenti). Ci siamo, urlano ai quattro venti.

Il pensiero: uno striscione, rosso e nero su stoffa bianca, all’angolo della curva sud: Benvenuto Aurelio!

Domenica 13 settembre, Foggia-Lanciano 0-0


Angioletto appare da Salvatore che sembra un divo cinematografico. Due ali di folla lo chiamano, lo invocano, gli concedono pacche sulle spalle e congratulazioni. Succede così, di solito. Quello che ha meno meriti di tutti, viene osannato più di chiunque altro. Come un eroe. Il genio militare di certi condottieri all’asciutto magnificati dalla Storia per le vittorie dei fanti infangati. Succede così ai padri. Cameratismo maschile all’ombra rassicurante dello “Zaccheria”. Domenica di settembre. Il neopapà è sfuggito per due ore al calore asfissiante e ai sentori di brodaglia del reparto. Poteva permetterselo, a differenza della mamma bloccata in un letto che – per quanto simbolicamente allegro – rimane pur sempre un letto d’ospedale. C’è il Lanciano, c’è la gloria. Lo invidio da morire, e non è un peccato ammetterlo. Peccato sarebbe nasconderlo nelle pieghe dei sorrisi di facciata. Io sono sincero fino in fondo: felice fino in fondo: invidioso fino all’osso. Confesso: l’ho invidiato anche quando nessuno lo invidiava, nella penombra della sala d’aspetto, quando gli si spalancavano davanti le ore vuote (e i minuti eterni) di una nottata d’attesa. Quando tutti levavano le tende, in attesa dell’sms risolutivo. Mi immedesimavo – e più di tanto non ci riuscivo e questo mi rodeva – nel peso dell’attesa senza vie d’uscita. Voglia di paternità inevitabile ad una certa età, conseguita senza meriti e senza sacrifici. Ma tant’è. È questione d’alchimie. Che è buono e saggio non pensarci.

La macchia nera delle nostre t-shirt s’avvia al settore che manca mezz’ora al fischio d’inizio. Diverse incognite, oltre quei cancelli. Ma lo spirito è alto, combattivo, festante. Gli steward e gli staccabiglietti fanno il loro lavoro in maniera eccellente. I bagni della Sud sono il termometro della partecipazione emotiva. I bar traboccano di alcolisti parzialmente anonimi. Aria di casa, tra questi ambienti accoglienti. Siamo al solito posto, dopo tanto parlare. Un bandierone issato, la Jolly Roger. Noi su due file. Di fronte, il gruppo di lancianesi fa blocco a tre gradini dalla balaustra. Le squadre finiscono la rifinitura e imboccano lo spogliatoio. Alla spicciolata sfilano sul tappeto rosso i ritardatari e quelli che s’attardano volontariamente. Uno sguardo, un lampo: Auguri!, Grazie! È bello, penso, avere famiglie allargate. Anche smisurate, come questa. Auguri! Grazie! Invidia. E pessimismo: non mi succederà mai, penso. Una certezza compulsiva, malaticcia: non so perché, ma so che sarà così. Un po’ come la storia della Coppa Uefa, di quella trasferta a Mosca (ma anche a Maiorca) che immaginavo da ragazzino e non ho mai fatto; la voce di De Niro che alza il tiro: Non c’è nulla di peggio del talento sprecato. Bronx, visto per la prima volta che avevo diciassette anni. Non devo sprecare il talento, pensavo. E a furia di pensarlo, sono passati tre lustri. Meglio scuotersi. Meglio sradicare l’asta, testare la voce, dare il via alle danze. Oggi è un giorno di festa.

Il Foggia rischia, il Foggia allarga il gioco, il Foggia difende e regge; il Foggia riparte, il Foggia sfiora, il Foggia si salva. Una partita affascinante, brutta, di quelle dove l’agonismo sopperisce al talento. Questa squadra mi piace. Mi dicono che non arriverà ai playoff. Pazienza, rispondo. E torno a cantare. Il pantaloncino rosso non si può guardare, ma ad ogni calcio d’angolo la telecamera inquadra il vero sottinteso di questa sfida: Benvenuto Aurelio! La Nord si sente bene, assedia la Sud, che alza il livello di un primo tempo flaccido. Nella ripresa la prova è più che buona. Anche la nostra. Alla fine è zero a zero. E va bene, più che bene, così.





PS: per coloro che hanno trovato troppo tristi e funerei alcuni passaggi, tengo a precisare che non si tratta di improvvise crisi funeste, ma di un ben preciso, pianificato, piano di panico collettivo. Ritengo altresì simili crisi inevitabili dinanzi a eventi logicamente inconcepibili e socialmente irreversibili come il parto in soggetti dotati di qualche neurone funzionante. Dirò di più: ben più d’un collega di t-shirt, nel festeggiamento al neopadre che si è consumato a ridosso della grande notizia, ha ingoiato Borghetti senza la solita spocchiosa indifferenza dei momenti qualsiasi. C’è da scommettere che pensieri pesanti si siano mischiati al Caffè Sport.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

auguri angelo&aurelio...

Anonimo ha detto...

Questo blog è bellissimo! COMPLIMENTI!

Il Libro