Mercoledì 7 agosto, Sturno (Av), Foggia-Palermo
primavera 1-1
Ci eravamo già stati. Un paio di anni fa, che sembrano un’altra vita. La
stagione di Bonacina e quella di Vespasiano sono, nella nostra memoria,
scolpite negli stessi anfratti. Dati sovrapposti. Vuoi realmente sostituire il file? All’epoca, millenni orsono,
giocammo contro la rappresentativa locale. E svernammo velocemente in un bar
nella parte bassa del paese, a due tornanti dal campo sportivo. Niente di
particolarmente rumoroso. Se non il ricordo di un periodo cupo, marchiato a
fuoco dal post-Zeman, dalla Tessera del tifoso, da Casillo, dai mesi di divieto
assoluto che vanno dal Flaminio a Santa Maria Capua Vetere. L’intero arco di
due stagioni complete. Che muovere su Trivento fu l’apice. Ci torniamo. Con uno
spirito diverso. E un’inquietudine latente, che guadagna metri nell’animo come
nel football americano. Già. Perché Sturno è la terza amichevole del secondo
Foggia di Padalino. E, per la prima volta in tanti anni di ritiro, le abbiamo
potute seguire tutte. “Che belli i ritiri vicini”. Perché si gioca col Palermo
primavera, che non sarà la prima squadra ma ha le maglie identiche, che mettono
in moto un po’ di associazioni. Perché siamo in tanti, sulla linea dell’autostrada
e sotto un sole implacabile. Però, non facciamo finta di niente, in settimana
siamo stati promossi. Ufficialmente “ripescati” in Lega Pro. In C2, si sarebbe
detto ai tempi belli. Che poi, ripescati non è il termine giusto. Perché noi
non siamo mai retrocessi in serie D. Eravamo salvi in C1, sul campo, e solo il
fallimento di chi sappiamo ci ha scaraventato nel girone inferiore di questi
inferi che durano da quattro lustri almeno. Quindi, a rigor di logica, la Lega
ci ha restituito meno della metà di ciò che ci spettava. Ma non è quello. È che
queste facce qui, questa gente che gioca a sorpassarsi tra il casello di
Lacedonia e quello di Vallata, hanno in fondo all’iride la consapevolezza che
il ritorno tra i Professionisti – mentre da un lato rappresenta una vittoria
sportiva della nostra squadra del cuore, dall’altro… – è il ritorno sulla scena
di tutto quanto odiamo. E che in quarta serie era più sfumato. L’obbligo di
restare a casa quando il Foggia gioca in trasferta. A Messina come a Gavorrano
e a Poggibonsi. Facciamo finta di niente, ma qualcosa è cambiato. E il sospetto
che l’amichevole di domenica prossima a Lacedonia possa rappresentare l’ultima
scampagnata fuori porta, è una spada di Damocle sulle nostre teste accaldate.
Ma per vivere bisogna ricacciare indietro i pensieri cupi. Quelli ci
inchioderebbero, riducendoci all’inazione e all’immobilismo. Così, percorriamo
i settanta chilometri di statale, A16 e provinciali, col sorriso ebete di un
pupazzo gonfiabile e lo stato d’animo di un malato terminale in pellegrinaggio
a Medjugorje. No, non Paolo Brosio. Non così gonfiabile. La carovana della Nord
arriva giusto in tempo. Quindi in largo anticipo. A Sabrina non piace la
pubblicità statunitense della nuova Fiat Cinquecento, la trova piena di
stereotipi, e per l’indignazione decide di investire un’ausiliaria del traffico
che prova ad suggerirci – a noi! – il parcheggio più idoneo. Quella,
comprensiva, non dice niente. Noi ci parcheggiamo dove vogliamo. Cioè, dove c’è
spazio. Poi una sfilza di maglie nere prende a salire la collina. Con una
fatica non indifferente. Si, ce lo ricordiamo il campo. C’è pure il solito
chiosco, che fa i soldi una volta ogni due anni. Dentro c’è già la Sud. E tanta
gente, ai margini. C’è pure uno che riprende, uno che parla al microfono e uno
che commenta le azioni salienti. Ma non s’è capito se poi quel che registrano
se lo rivedono a casa loro, la sera, come le diapositive del mare. Il tempo di
attaccare striscioni e pezze e siamo in action. Troppo in action per i
trentacinque gradi all’ombra. Siamo dei maledetti forsennati. Tra cori secchi,
cori ripetuti e battimani, sembriamo gli stessi di Pomigliano, quando ci
giocavamo i play-off. In campo, il Foggia preme, ma i ragazzi del Palermo
sembrano tecnicamente validi e quando verticalizzano fanno male (ah! Analisi
tecnica!). Noi continuiamo per la nostra strada, senza soste e senza respiro.
Una vita al limite dell’affanno. Girano oscure bottigliette d’acqua. Il mio cuore lo sai. Questa non è una
corsa campestre, questi sono i tremila siepi. Batte solo per te! La rete si gonfia, il guardalinee annulla.
Ladri! Così una selva di mani fissa l’uomo con la pettorina sulla linea
laterale. E si scopre che c’avrà quindici anni. Ladri minorenni e sfruttatori
del lavoro minorile! Il guardalinee in erba ci guarda, poi prende la pettorina
e la consegna ad un attempato buontempone. Alt
gioco. Alla fine del tempo, comunque, ci comunicano che il Foggia vince 1-0
lo stesso. Ottimo. S’era visto che esercitava pressione. La ripresa è da lavori
forzati. Senza la goliardia di Agnone, spacchiamo pietre vocali. Il Palermo ha
spazi. Il Foggia sembra stanco. Concede. Finché i rosanero non pareggiano. Il
sole penetra nelle fessure del cranio. I cori che ne fuoriescono grondano
latenza. Il tamburino esegue sonorità tribali. E, se dio vuole, la partita
finisce. Un buon pari. La squadra sotto la tribuna sembra dispiaciuta. Umilmente,
chiede quasi perdono per questi due punti persi. Vacillano le certezze. Non è
manco Coppa Italia, questa. Ma qualcuno dovrà pur dirlo. Un’altra volta, però. Fuori.
Il paese è chiuso. Sigillato. Per una birra, dice il pizzardone capo, bisogna
scendere a valle e risalire. Lo faremo.
Bobby Fred
Ci inoltriamo. In salita. La Chiesa di San Michele Arcangelo è una foto
incassata nel muro. Quella originale è venuta giù nel terremoto dell’Ottanta.
Quella ricostruita è una mostruosità evidente. La piazza è un saliscendi. Troviamo
il nostro angolo, guidati come al solito dai tavolini rossi della Peroni. (Che
per noi fungono da segnalazione nautica). Davanti a noi, il nonno del Tennis
Club ha allestito il suo banchetto. Giocattoli. “Ma è festa patronale?”,
domandiamo agli avventori del bar. “Domani”. E di cose così ne scopriamo altre.
Tipo che a qualcuno Foggia sembra bella e pulita. E che lo scorbutico barista,
intento a riprendere il figlio con la sua radiocomandata, tra un’oretta metterà
su la brace. Sulla rotonda dinanzi alla chiesa, un palco annuncia serata musicale.
E il Concato in sottofondo, da solo, non basta a giustificare il deserto umano
che abbraccia la struttura. Noi, invasi da una stanchezza che rasenta la
vecchiaia dello spirito, non beviamo con la stessa verve di sempre. Talune bottiglie
da 0,33 volano al cestino non ancora finite (anche perché il figlio dello
Scorbutico, finito di giocare con le macchinine, si mette a sparecchiare con
zelo e predisposizione). E quasi sempre calde. Sigarette mai spente. E un
tressette comprensivo con un signore che sorvola sul livello dei suoi
avversari. Poi le casse diffondono La
canzone del sole. E impazza il dibattito. Se la signorina sia una ricca
borghese di facili costumi o, più facilmente, che il signorino sia un idiota. Proletario
o no. Ferma, ti prego, la mano. Idiota.
Il congresso vota il suo pazzo. Per quattro volte di fila. Vince sempre lui. Serpeggia
diserzione. Arrivano i panini. Il monumento commemora gli eroi di Sturno caduti
nelle guerre d’Italia. Sul basamento, una foto di gruppo del paese durante il
fascismo. I fascisti in divisa sono otto. Un buon risultato. Attorno, facce di
ventenni che sembrano cinquantenni. Visi affilati, particolari, identificabili
al primo sguardo. Tre ragazzini seduti di fronte hanno la stessa faccia. Che
inquietante meraviglia, la genetica! “Ce ne andiamo?”, “Si”, “Magari aspettiamo
il primo pezzo del gruppo”. Ma il gruppo si fa attendere. Alle dieci, ancora
niente. Serpeggia nervosismo. La piazza, nel frattempo, s’è animata. Forse perché
è andata via la voce di Concato. Altro giro di birre. Il terzo.
Poi da una luce azzurra, da una gialla, e dall’assenza di un’ovazione, capiamo
che i ragazzi sono in giro. Via, via,
vieni via con me. Un Paolo Conte da piano bar, anni Ottanta. Ma pur sempre Via con me. Ci alziamo, andiamo sotto il
palco. Ci guardano, ma è tutto sotto controllo. Non siamo molesti, né
entusiasti al punto da risultare fuori luogo. E scatenare la ritorsione. Non perderti per niente al mondo lo
spettacolo d’arte varia di uno innamorato di te. Intermezzo. Placidi,
stiamo per salutare il paese. Quando, all’improvviso, non si capisce più
niente. Enzo vede la luce. E, come un pastorello di Fatima, corre ad
annunciarlo a tutti. I suoi occhi sono trapassati da lamine di laser, le sue
parole sono confuse. Più del solito. Ci chiede di seguirlo, che dietro l’angolo
sta succedendo qualcosa. Qualcosa di grosso. Arriviamo. E quel che vediamo è
raggelante. Un corteo. Un trattore sospinge un trono rosso porpora. Davanti, di
fianco e dietro al catafalco in avvicinamento, un gruppo di bodyguard con dei
fucili di plastica. Il capo delle guardie del corpo avrà settant’anni. Sul
trono, Bobby Fred. L’estroverso del paese. L’Estroso, come dice la moglie dello
Scorbutico. Vestito da papa, con tanto di tiara e pastorale. A bocca aperta,
fissiamo lo spettacolo. Sogniamo o siam desti? Il serraglio s’avvicina. Il papa
benedice. La piazza ondeggia, lo adora. Decine di digitali immortalano il suo
passaggio. “L’anno scorso è arrivato in carrozza”. Dev’essere come la Festa
della Dea. Ci passa vicino. Ci dice: “Forza Palermo!”. Ed è lì che lo
riconosciamo! L’abbiamo visto al campo. Quel soggettone sulla cinquantina e
passa, coi capelli lunghi e gialli, con le lentine blu. Quello che si voleva
fare la foto con Arnaldo! Pensavamo fosse un pazzo. Ma costui è un genio. Il suo
corteo regale, la sua papa-mobile, sparisce in un viottolo, lasciando la gente
ilare e soddisfatta, con un sorriso di beatitudine (e scampato pericolo) sulle
labbra. Poi torna. A quel punto, a grandi falcate, decidiamo di fendere la
piazza. Dobbiamo consegnare a Papa Bob la sciarpetta. Quella di Carmine, che
nessuno di noi ne ha portata una. Arriviamo sotto il seggio del pontefice. Allunghiamo
il vessillo come in Piazza San Pietro si allungano neonati. Una delle guardie
del corpo afferra la sciarpa. La controlla come se fosse un cibo da assaggiare.
Poi la gira al Papa Re. Che, senza pensarci su due volte, se la attorciglia
attorno al collo. Il nostro applauso è fragoroso. Lo sguardo di Enzo è quello
di Brosio. Quando ha visto la Madonna. O quando ha sgamato la moglie. “Forza
Foggia!”, grida il Pontefice. Le guardie del corpo applaudono, la piazza li
segue. È il tripudio. Un gol inatteso, che gonfia i cuori di gratitudine. Questo
perfetto sconosciuto ci ha conquistati. Ma le sorprese non sono finite. Il soggettone
non è solo un istrionico cabarettista situazionista. Muove verso il palco. Noi
pensiamo: Oddio, oddio, oddio. Vuoi vedere che, vuoi vedere che. Si.
Sale, con i suoi uomini in nero. Il settantenne lo annuncia, dopo aver
minacciato di aprire il fuoco su tutti. Johnny Rotten della Bassa Irpinia. E
lui guadagna il microfono. “Da oggi c’è un terzo papa”. E noi andiamo fuori di
cotenna. Rock&Roll allo stato puro. Canta. Quell’uomo canta. Tre pezzi,
suoi. Di cui uno in inglese. O in farsi, non s’è capito. E noi, coi nostri battimani,
siamo il suo Fan Club. C’è dell’Elvis, nella sua impostazione canora. C’è del
Toni Renis. C’è del Debord. C’è dell’Hannibal Lecter. Alla fine, il visibilio
copre tutti. E lui saluta, per primi, “i giocatori del Foggia”. Che saremmo
noi. La piazza si gira, festante. Le massaie ci fissano sorridenti ed
incredule. Noi applaudiamo. Mentre Papa Bob comincia a snocciolare i paesi a
cui tiene. Flumeri, Grottaminarda, Frigento. E “Foggia, nostri grandi amici”.
Poi annuncia che la piazza potrà rivederlo tra quindici anni. E un attimo dopo
risale, che ha dimenticato di ringraziare Sturno. Imbocchiamo la discesa con lo
sguardo allucinato e il passo infermo. È successo davvero. E noi stavamo per
andarcene.