15/12/08

La qualità del silenzio

di Lobanowski 2

Domenica 14 dicembre, Foggia-Ternana 2-1

Francoforte. Dovevo essere a Francoforte, oggi. Tutt’al più a Mainz, che poi sarebbe Magonza. Due biglietti nel trolley. FSV Frankfurt-Sankt Pauli. Serie B tedesca, l’occasione imperdibile di vedere il Sankt Pauli, di imparare un paio di cori da tramandare ai posteri, di conoscere i suoi tifosi in trasferta. Invece.

Invece all’una e venti sono oltre la prima linea di filtraggio, e sto srotolando lo stendando. Vai, vai, mi fa il poliziotto. E vado. Daniele ci ha raccontato di un incontro fortuito: Oggi vengono i compagni vostri, gli ha ironicamente detto un tale. Penso all’alberghetto delle fiabe che avevo prenotato. Sbuffo. Uno steward, alla terza porta, ci dirotta: Quelli dei club alla prima. Nessuno di noi ha fiatato. Si vede così tanto che siamo un gruppo? Entriamo che non ci sono ancora le guardie. Nel piazzale, nessun volantinatore del Regime. Aria strana, sospesa. Saliamo la prima rampa, la seconda, siamo dentro. Lo sguardo da destra a sinistra, da sinistra a destra. 13 individui. Nell’intera curva, a parte noi, ci sono 8 persone, sparpagliate con maestria. È presto, ma la Sud vuota mette i brividi. Dispiegare la stoffa, rattoppare il fissaggio, lanciare la corda oltre la grata, tirare verso sé, annodare, una, due volte. Un nodo alto, altissimo. Un passo indietro, rimirare. Oggi la pezza è superba, mai attaccata così bene. Il tocco di classe: due lievi giri di nastro da imballaggio agli angoli bassi. E voilà. Relax. In campo non c’è nessuno, neppure le squadre. Sono le due meno dieci, e siamo quasi soli. Che sia successo qualcosa di grave, modello undici settembre, e non ne sappiamo niente? L’istinto di mettersi al telefono, due volute con la bandiera, per prendere il ritmo, una proposta di bar. Mancano anche gli striscioni. Aria strana, lo dicevo. E il pensiero corre ai contrafforti in stile teutonico. Ri-sbuffo. Finché un ragazzo giunge dal basso, ci guarda, ci parla e mi stacca dal torpore: Uagliù, ma non lo sapete che oggi non si espongono striscioni? Silenzio. No che non lo sappiamo, abbiamo avuto una settimana piuttosto impegnata. La contestazione, eccola qua. Le prime domande si affacciano, inevitabili. Meglio metterle a tacere, meglio staccare subito lo stendardo, di fretta, senza neppure guardarlo. Che oggi basterebbe uno sguardo per ripensarci. Riunione, giù alle porte.

Oggi non si canta, non si incita, non si esulta e non si fischia. Impassibili, come il vento durante un minuto di raccoglimento. Muraglia muta contro l’umiliazione. Che pare cosa facile a dirsi, ma i foggiani li conosciamo. E sappiamo che nessuna posizione prolungata può mai attrarre la loro attenzione per più di pochi istanti. Incostanti nei lavori di pazienza, umorali come il mese di marzo, scommettiamo che non durerà. Che ci sarà da innervosirsi, da succhiarsi il fegato. E il pensiero corre al volo che si è alzato su Roma senza di me. Arriva il volantino. I sospetti si tramutano in altrettante certezze. La pessima prestazione di Lanciano, i 5 gol al passivo, l’atteggiamento della squadra in trasferta. Certo. Ma oggi resteremo in silenzio per tutti i 90 minuti – c’è scritto in maiuscolo grassetto, con sottolineatura nera – soprattutto per ciò che è successo in settimana. Ecco, ci siamo. Il volantino non specifica, non scende nei dettagli, non approfondisce e non commenta. Chi sa, sa. Noi sappiamo, in tanti sanno. E basta questo. Ma in tanti, tantissimi, non sanno: ignorano, chiedono al vicino, s’affidano a quelli che la sanno lunga. E quelli, da ultimi interrogati, spalle al muro, inventano. È un festival. Questo silenzio vuole essere una ulteriore conferma della nostra indipendenza. Minacce di lasciare la società non condizioneranno mai il nostro modo di essere in curva e il modo di amare l’Us Foggia 1920. Non eccepisco, non discuto. Si voleva la risposta corale, e risposta corale sia. Ma tacere, fissare gli omini in campo, ascoltare i commenti e, talvolta, anche i risultati delle partite di A, non è proprio il nostro modo di essere in curva. Più che altro, è una sofferenza immane, una noia da sbadigli. Giuseppe inorridisce e domanda, spaventato: Ma mo ci tocca guardare la partita? Non ci condizioneranno? Un paio di palle. Siamo condizionati, condizionatissimi. Quasi repressi. Altroché.

Io credo che il sacrosanto dovere di sostenere quella maglia vada aldilà di qualsiasi contingenza. Per ogni altra evenienza, ci sono gli ambiti adatti. Ma tacere in risposta all’atteggiamento di undici sconosciuti – che per quanto bene possano volere al rossonero, torneranno sconosciuti quanto prima – è una forma tribale di auto-evirazione. Che finisce per concedere troppa importanza alla squadra, agli undici che scendono in campo, a quelli che vanno in panchina, a quelli che vanno in tribuna, al mister e a tutto il resto del circo. Avremmo dovuto cantare, e cantare, e cantare ancora. Per dimostrare che non sosteniamo loro, per quanto bravi o scarsi possano essere. Eseguiamo un rito collettivo. Ed è altra cosa. Riguarda noi.

Come che sia, entrano i ternani. Otto, nove al massimo. Felici, festanti, a braccia larghe. Poi arriva Beppe Signori. Sotto la curva, a passi veloci, quasi una corsetta. Arriva, quel laziale. E non posso che mostrargli scapole, schiena e spina dorsale. Non voglio sentire ragioni, non c’è nostalgia che tenga. C’ero all’ “Olimpico”, quando urlavamo È rossonero, Signori è rossonero, per cauterizzare una ferita ancora lancinante. Un amore tradito. E Beppe ci punì, segnando il gol del quattro, forse del 5-1. E fece quello che mai mi sarei aspettato da lui: corse sotto la Nord, sotto quella muraglia di fascisti, ad esultare come se avesse realizzato il gol della vita. È un professionista, certo, ma ricordo che pensai: Quest’uomo con me ha chiuso. E adesso è inutile rivangare. La Sud lo applaude, tenta di abbozzare un coro autogestito, ma non si ricorda come fa il ritornello. Io me lo ricordo, ma ho buttato via la chiave d’accesso. Va, laziale, va. Torna a casa tua. Ed evita di farti rivedere in giro.

Il primo tempo è noioso da irritare. Probabilmente è simile a tante altre partite, ma il fatto di non partecipare all’evento, di non coordinarsi nel sostegno, rende questo sforzo di sfondare dei rossoneri, particolarmente indecente. Segniamo su rigore, che l’arbitro biondino fa ripetere con straordinario zelo. Attorno, assistiamo ad un commovente spettacolo di volubilità umana. Se quello che sta al centro del centrocampo sbaglia un appoggio sulla destra, sono insulti, boati, fischi, sproloqui. Quelli che non cantano mai, quando c’è da cantare, oggi provano a intonare coretti stonati, stornelli sanremesi. Poi uno della Ternana falcia un nostro in fuga, e si scatena il putiferio. Il gol, e sembra fioccare la pace come neve a Francoforte. Sbuffo. A fine tempo ci tratteniamo giù più del dovuto. C’è fermento, fibrillazione. Il dibattito sulla contestazione è animato, anche se sono troppo fuori fuoco per interpretare le posizioni. Ma non mi sembra, tuttavia, che ci siano due blocchi contrapposti. La ripresa è in corso. Noi, ancora alle prese coi nostri cicchetti, ci affacciamo al primo anello. Che qua non si è mai chiamato così, ma fa niente. Osserviamo la Nord che ha ripreso a cantare, che ha rotto il silenzio con un coro contro un panchinaro. Ancora quella storia accaduta in settimana. Strascichi. Quando ritorniamo in posizione, la Ternana pareggia. E ricominciano i sermoni, risalgono in cattedra i disfattisti. Una specie di tagadà umorale che stressa più che divertire. Anzi, non diverte affatto. La psicologia del tifoso è un rebus: è millantato amore per la sofferenza che si esprime nell’incapacità di soffrire; e nell’impossibilità di fare altro, di sfuggire alla propria sorte. Ma questo l’hanno già detto. Di nuovo, c’è il gol di Salgado che chiude la partita. E il coro con cui anche la Sud saluta il panchinaro.

Alla fine la Nord saluta romanamente i ternani che smontano. Mentre la Sud viene risucchiata da un vortice e scompare, come se non fosse mai pervenuta. Scendo i gradini, pensoso. A Francoforte non avrei potuto cantare. Non ci sono andato, e non ho cantato ugualmente. Un paio di giovanotti corrono verso il campo. Il loro grido, nella curva vuota, riecheggia, rimbomba: Avanti o popolo, alla riscossa, bandiera rossa, bandiera rossa. Ci giriamo di scatto, ma non vediamo più nessuno. Bandiera rossa in Sud, a margine di una partita con la Ternana. Che confusione, sarà perché ti amo…

3 commenti:

Anonimo ha detto...

concordo in pieno con te la storia di signori.......quella corsa sotto la curva con noi moribondi la ricorderò sempre malvolentieri

Anonimo ha detto...

Tifoseria anomala la n/s...hanno sempre tutti ragione e completamente torto...non fare niente dopo i 5 schiaffi di Lanciano sarebbe stato amorfo...protestare silenziosamente nel momento tecnico/societario attuale non sò...stiamo dando una mano ad una società che sta facendo le valigie..non sò,alla fine il Foggia è sempre e solo dei tufosi e allora rimarrà quello che di buono o cattivo avranno saputo fare questi Signori...a proposito di Signori quando esultò all'olimpico non andava ancora "di moda" l'ipocrita non-esultanza di questi tempi...certo che un pò più di rispetto per la maglia ke ti ha portato in azzurro...anke in questo kaso ki ha ragione e ki ha torto...nessuno nel calcio kome nella vita...una kosa è certa SOLOFOGGIANELCUORE.

Anonimo ha detto...

Signori giocava nella Lazio ed aveva il sacrosanto diritto di esultare. Nessuno lo mette in discussione. Non chiesi pietà, all'epoca, per il mio amore tradito. Non ne chiedo adesso. Ma ci sta che con me chiudi, no?
Le ragioni ci sono e restano valide, per qualunque azione. Ma anche le reazioni hanno la stessa dignità. Signori ha fatto quello che doveva e che sentiva (al quinto gol, comunque); io pure, voltandogli le spalle.
Non cerco l'uno al di sopra del bene e del male. Non sono mica Battiato, io.

Lob2

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