12/01/09

Anonimato

di Lobanowski 2

Domenica 11 gennaio, Potenza-Foggia 0-0

Siamo la ciurma anemica, di una galera infame…


Dunque: se abbiamo fatto bene i calcoli, dovremmo essere quattordici. Se le previsioni si rivelano attendibili, non dovremmo trovare neve per la strada. Un po’ ce ne rattristiamo, ma effettivamente è meglio così. Inutile continuare a ragionare per impeti sanguigni. Zio Franco indossa un giaccone pesante, antivento e antigelo. Rossonero, ovviamente. Gli altri hanno guanti e cappelli. Mancano i colbacchi. Mancano Totò e Peppino. Manca Mattia, sulla cui sorte nutriamo più di un dubbio. Qualche mugugno sofferente dall’altro capo del telefonino, è tutto quello che abbiamo di lui. È sveglio, è vivo. Ma lo attendiamo per mezz’ora e passa. Poi lo vediamo giungere, con gli occhi di chi ha dormito due ore in tutto. Quattordici, si. Tre macchine, in carovana. Non abbiamo pianificato la sosta: Rionero è troppo vicina, le altre sembrano tutte fuori mano, in altura. Consideriamo l’ipotesi di consumare il nostro aperitivo direttamente a Potenza, in qualche bar del centro. Mattia, che ha frettolosamente buttato giù un Lucano per riprendersi, ci ricorda che – in fondo – all’andata siamo stati noi ad offrire due bottiglie di Pampero agli ospiti. Dovessero ricordarsene, potrebbero ricambiare.

La strada ci è mancata, non lo nascondiamo. Il Foggia, nella sua accezione più tecnico-tattica, non occupa che una minima parte dei nostri argomenti da viaggio. Certo, andiamo incontro ad una tappa decisiva. In mezzo al campo, oggi, si testeranno le reali ambizioni di questa squadra. La voglia e la passione, la fame, dopo una sosta dannosa e sfibrante. Ma in macchina si parla d’altro. La goliardia sottolinea la riappropriazione del diritto al cazzeggio. All’altezza dello svincolo di Venosa, città di Orazio, perdiamo un pezzo, che si distrae e prosegue verso la Murgia. A Rionero incontriamo i primi banchi di nebbia. Sulla destra, Barile ci appare come un piccolo presepe abbarbicato in un cuneo di colline. Procediamo a 60km/h e non è il caso di sfidare i tornanti per metterci a fare turismo. Giusto il tempo di sgranchirci le gambe in una Posta, di prendere un caffè, di ingoiare vapore. È dolce lo scuro stanotte, nemica ormai la luna. La frase al neon ci ricorda che siamo in terra di briganti e brigantaggio. È affascinante questo viaggio sensoriale sulle ferite dell’Unità d’Italia. Questo continuo andirivieni tra le radici contraddittorie – e gli idoli postumi – dell’identità nazionale. Qui si esaltano i precursori dell’antistato, e noi – pur consapevoli delle scelte del marketing identitario – non siamo affatto a disagio. Lello ci racconta di un’associazione che, ogni anno, arruola duemila comparse per rappresentare le battaglie più epiche della cosiddetta Guerra al brigantaggio. Che altro non fu, poi, che l’atto di annessione colonialista del Sud borbonico e paternalista alle politiche già capitaliste del Nord sabaudo. Un poster commemora le Brigantesse, donne che in tutto e per tutto – spiega la didascalia – condivisero i rischi e le passioni degli uomini. Ceska sorride, conquistata alla causa. Un bicchiere di vino alla memoria delle bande, sullo spiazzo dell’autogrill sommerso dalla bianchissima nebbia. I dispersi della Murgia ci chiamano che sono sulla retta via. Possiamo proseguire. È dolce lo scuro stanotte, nemica ormai la luna.

Potenza ci appare come un asimmetrico condensato di palazzoni iper-moderni, piantati a vanvera su di un monte, come un Golgota sperimentale. Una specie di Sala Consilina. O, per chi c’è stato, di Catanzaro. L’ingresso in città è reso complicato da una quantità di segnali (e di segnali assenti) in antitesi tra di loro. Giriamo a lungo, saliamo e scendiamo, affrontiamo ponti metallici e procediamo ad angolo retto verso grattacieli inspiegabili. E immotivati. Un posto di blocco della Finanza ci dirotta su uno stradone a picco sulla stazione ferroviaria. Dal trenino in arrivo s’alzano cori inequivocabili. Non è il grosso della truppa, ma sul ponte – in alto – decidiamo di accogliere i nuovi arrivati con una sbandierata di tutto rispetto. Sventolano, nel biancore della foschia, i nostri vessilli. Quelli, da sotto, escono in gruppo. E cantano. Poi è la volta dei pullman. Quello degli Ultras 1980, quello del Regime. Non ci sono bar, non ci sono negozi aperti. C’è il palazzone di Woodcock, il Tribunale. E una scalinata in discesa. La questione del caro-biglietti sembra essersi risolta con un escamotage. Noi, che i tagliandi li abbiamo acquistati con largo anticipo, pagandoli a prezzo intero, decidiamo di trattare alle porte per fare entrare i nostri senza-biglietto. Ce la facciamo. Entra tutto, tranne lo striscione. Siamo alle solite. I fuochi della trattativa si moltiplicano, mentre Daniele, Giuseppe e Antonello restano fuori. L’appuntato dei carabinieri sembra convincersi, mentre quello della Polizia mantiene ferma la sua posizione: non deve entrare niente che contenga un messaggio. Quale che sia. Un poliziotto ci chiede di indietreggiare. Poi, per stemperare la rigidità, aggiunge: “Non voglio uomini dietro di me, solo donne”. Il che ci sprofonda in un lago di costernazione. Forse è un fan dei massaggi orientali, chi può dirlo. Da dove siamo riusciamo comunque a vedere che tra i nostri, la polizia e i carabinieri, è in corso un vero e proprio scontro di procure. Ma prima dell’interevento del Guardasigilli, ci pensa la Digos di Foggia, a trovare la soluzione ottimale per scontentare tutti: che la pezza entri, ma venga esposta al contrario. Senza lettere, in sostanza. Poi un poliziotto indica un paio di noi, vecchie conoscenze dell’ambiente: Vi tengo d’occhio.

Come che sia, saliamo i gradoni di ferro di questo settore da 15 euro e passa. E una volta in cima, stupore e ilarità se la battono. Nessuno dei due sentimenti riesce ad avere la meglio: non si ride, ma non si piange neppure. Questo spazio di tubi Innocenti fa letteralmente pena. Dalla nostra posizione, dritti di schiena e con lo sguardo fisso in avanti, vediamo gli spogliatoi, degni di un campetto di periferia. E, poco più a sinistra, un paio di porte per qualche tiro d’allenamento. Per vedere il campo vero e proprio, dobbiamo girarci sul fianco destro. Come militari al giuramento. La curva di casa, con pochi striscioni e poche bandiere, è a Ore 7-9. Senza parole. Siamo trecento. Le squadre ci passano sotto. Non fa freddo come preventivato. Soliti esercizi per sciogliere le ugole. Noi vogliamo questa vittoria. Una squadra con la maglia rosso-qualcosa a righe. L’altra in maglia bianca. Al secondo minuto uno in maglia a righe spara a lato da distanza ravvicinata. Non sappiamo ancora se quel gol lo abbiamo fallito noi o stavamo per prenderlo. Ci mettiamo qualche minuto ad appurarlo: si, quelli a righe siamo noi. Il Potenza, in uno strano impeto di ospitalità, gioca tra le mura amiche con la maglia di riserva. Che poi è identica alla maglia di riserva che avevamo noi l’anno scorso. Vincere, siamo venuti per vincere, vogliamo vincere, siamo venuti per vincere. Gli scarponi battono sulla ferraglia, il frastuono è notevole. I potentini a Foggia mi erano sembrati validissimi. Ma, al momento, hanno fatto partire un solo coro. Sul loro sito si parla delle diffide che stanno uccidendo il movimento.

La prima partita del duemilanove, intravista a sprazzi dagli spiragli delle bandiere in moto perpetuo, scorre via noiosa e senza sussulti. Il Potenza non ha voglia di perdere, ma neppure d’offendere. Il Foggia pensa per un attimo di provarci, a metà ripresa. Pensiero stupendo, direbbero al Piper. Mancino colpisce un palo e il tonfo sordo riecheggia fin su agli ultimi piani. Poi Novelli decide di arretrare il baricentro, di accontentarsi.Pare che a fine partita, nel momento in cui ai giocatori viene chiesto di giocare senza di senza la maglia, gli stessi svogliati eroi stessero dirigendosi verso di noi, con l’implicito intento di beccarsi l’applauso per un punto prezioso strappato al “Viviani” di Potenza. In casa dell’ultima in classifica. Che strana gente.

Fuori dal campo sportivo, c’è ressa a puntellare l’apparente disinteresse. Il pullman del Foggia, dove troverà posto qualche pezzo grosso della società, è parcheggiato in strada. Esposto al pubblico ludibrio. I foggiani, pronti a riprendere lo stradone del ritorno, si soffermano qualche attimo di più a ricordare agli astanti la dote preziosa del pudore. Della contrizione e della vergogna. Mentre la polizia sfolla, ed un poliziotto foggiano si lascia scappare che prenderebbe volentieri a manganellate questa squadra senza coraggio. Ma noi siamo contro ogni forma di collateralismo. A ognuno il suo.
La jolly-roger è l’ultima a smettere di sventolare.

2 commenti:

Sav (saveriano@tin.it) ha detto...

......sono capitato qui per purissimo caso!!
Davvero bel racconto, bella descrizione di un'anonima trasferta di serie C come ne ho fatte tante anche io!! Molto ben scritto.
Ancora complimenti da un vecchio Strà Kaos Potenza!
Saluti ultras!

Anonimo ha detto...

Grazie mille, Sav. E' bello avere riscontri come il tuo.
In realtà, scriviamo perché abbiamo una paura fottuta che un giorno si possa dimenticare. E io non ho voglia di dimenticare niente. L'anonimato, in verità, non esiste. Il titolo si riferisce alla partita. Ad una partita di cui non ricordo che un paio di cose, di cui non mi importa poi neanche tanto. Diciamocelo: non esistono trasferte anonime. Né in C1, né in C2, né in Eccellenza.

Comunque, una cosa mi ha fatto impressione (e l'ho anche scritto) la differenza tra i potentini visti a Foggia e quelli visti in casa. Quest'anno, da noi, mi sono piaciuti solo loro e i paganesi. Non mi sono piaciuti i beneventani, troppo napoletani come stile, non mi sono piaciuti i perugini, pochi e divisi. Eppure in casa, a Potenza, la curva è stata praticamente muta. Cosa sta succedendo?

Ricambio i saluti. Spero di vedervi ancora.

Francesco

Il Libro