26/01/09

Questione d'onore

di Lobanowski 2

Domenica 25 gennaio, Cavese-Foggia 1-1

La disorganizzazione è un film muto da seguire col fiato sospeso. Perché, per quanto si possa credere di conoscerne la trama, c’è sempre una rottura scenica spettacolare, che emoziona e merita l’applauso. O commuove fino alle lacrime. Ci siamo detti: Mangiamo tutti assieme e poi vediamo la partita. Quando Salvatore, venerdì sera, è arrivato a proporre un menu di agnello e maiale da arrostire sulla brace, mi sono permesso di intervenire soltanto per invocare puntualità. L’ultima volta che abbiamo pranzato prima di una partita in tv, col Crotone, c’era gente che masticava parmigiana che già le squadre se le stavano dando. Da qui l’accordo: si mangia alle 12,30, come se abitassimo ad Alessandria. O ad Asti. A questo punto, le proposte si sono federalizzate: c’erano telefonate da fare, prenotazioni da annotare, oboli da riscuotere. Un lavoraccio. In mezzo, una giornata letteraria, da passare tra teatro e palcoscenico, piena di trambusto e di fitte lancinanti al cranio. Ho rilanciato: alle 12 accludiamo alla giornata goliardica anche l’aperitivo. Socialità spinta, dalle 12 alle 18. C’era anche l’evento in Facebook, con 9 ospiti potenziali. Nicola s’è informato – con molto tatto, c’è da dire – con qualche domandina in Messenger. Antonello, più grossolanamente, c’ha provato telefonicamente. Risultato: alle due e venti ero da solo. E a digiuno. Socialità spinta. L’istinto alla delega, in assenza di volontà di sbattimento, fa tutt’uno col fallimento. Anche in un collettivo della sinistra extraparlamentare.

Sullo schermo c’è Juary, antico attaccante dell’Avellino, ispiratore occulto della figura di Aristoteles. Fa il commentatore, l’Altafini dalla lingua oriunda, per Conto Tv. Sta dicendo che il Foggia deve evitare di alzare le barricate. Il “Simonetta Lamberti”, stadio che non ho mai visto dal vivo, è semi-deserto. Il terreno sembra in condizioni pessime. Piove. A dieci dall’inizio arrivano Guido ed Antonio. Poco dopo, Giuseppe & C. spuntano dal bar all’angolo, dove si sono dedicati alla filologia della Sambuca Molinari. Poi, via via, i ventisei metri quadri si popolano. A dismisura. Non abbiamo avuto il tempo di piazzare l’impianto coreografico all’esterno, ma la partecipazione non ne risente. Anzi, in settimana abbiamo votato il simbolo del gruppo, che presto farà la sua comparsa in pubblico. Due cannoni pirateschi, incrociati a mo’ di tibie, su un mare rossonero. Sotto, il nome, in perfetto stile punk. Atypical Foggia Supporters. Nel cartone giacciono le prime cinquanta copie della t-shirt. O quel che ne resta. Stiamo diventando adulti, settimana dopo settimana. Sul marciapiede impazza un dibattito sul lassismo e le responsabilità collettive. Dentro, la partita è già al decimo. Non ce ne siamo accorti. Rientriamo in tutta fretta, ci accomodiamo negli spazi lasciati liberi, che non sono molti. La maglia bianca dei nostri è, in alcuni casi, già sporca di fango. I cavesi, nella loro spettacolare tenuta blu-tenebra, provano a bombardare la linea difensiva, che regge. Col passare dei minuti, la partita si fa cattiva, senza esclusione di colpi. E i nostri, incredibilmente, reagiscono. Più d’una volta ci vuole l’abilità dell’arbitro per separare i giocatori. Incredibile sul serio: si stanno battendo! Non me l’aspettavo, e rifiato, prima di tuffarmi in una contesa che solo l’ottusità della legge mi impedisce di vivere a ridosso del pantano verde. A Roma un magistrato creativo ha rispedito a casa il reo confesso che nella notte di Capodanno ha stuprato una ragazza nei meandri di una festa. Italiano e di buona famiglia, naturalmente. Mentre a Guidonia i fascisti aggrediscono rom e rumeni, accusati di appartenere alla stessa etnia di altri cinque violentatori sconosciuti. In un bar, finanche dei polacchi e degli albanesi, se la sono vista brutta. Noi non possiamo seguire il Foggia a Cava. Cristiano De Majo dice che, in qualche misura, ce la siamo cercata, attraverso la reiterazione simbolica di una politica dello scontro che ha poco a che vedere col calcio. Mio padre sostiene che lo stadio deve tornare ad essere il luogo delle famiglie. Poi aggiunge, con poca accortezza, “come era una volta”. L’altro giorno ha trovato tra le sue scartoffie una fotografia della curva Nord dello “Zaccheria”. Tubi innocenti, filo spinato, volti d’epoca. Anni Settanta. E neppure una donna. Ragazzini si, certo, ma con facce e stili più simili agli scugnizzi che scacciarono i tedeschi da Napoli, che ai freschi figli di papà. In cima, lui, il genitore, nell’atto di prepararsi una sigaretta col tabacco. Altro che famiglie, il vestibolo di un inferno casual, con tanto di nostalgia in appendice. Che se al posto del tabacco ci fosse stata pure della marijuana, perderebbe ogni credibilità il suo ruolo da moralizzatore. Il genitore.

Il Foggia lotta, se la gioca, prende calci e li restituisce. Antonio, telecronista radiofonico in quel di Cava, unico dei nostri presente sugli spalti, parla di un ambiente incredibilmente surriscaldato, con gente che s’arrampica alle inferriate e che inveisce contro il gabbiotto dei giornalisti ospiti. Non hanno mai dimenticato il gol al minuto 95 con cui persero la finale play-off. E non potrebbe essere altrimenti. Per molto meno, Omero scrisse l’Iliade. Rischia, il cugino radiocronista. Rischiano tutti i foggiani. Da noi si urla contro l’elettrodomestico, con foga e partecipazione. Cava è importante in ottica play-off, ma è anche – e soprattutto – una questione d’onore. E il fatto che i nostri non stiano sfuggendo allo scontro, su un campo dove l’ingrediente intimidazione è più importante dei piedi buoni, non è cosa da poco. Alla mezz’ora la Cavese non ha prodotto niente. È assurdo pensare che questi abbiano affrontato la partita – una partita di alta classifica – impostandola sul semplice carattere, sulla cattiveria, sulla malcelata minaccia. Impossibile che occupino il quarto posto senza un briciolo di schema offensivo. Volevano intimorirci, chiuderci in una sala torture ovale, e farci mollare l’intera posta col semplice spavento. Invece, al minuto 37, passano addirittura sotto. Un cross altissimo finisce nel vuoto, ma l’arbitro – che dimostra personalità – vede un fallo e fischia una punizione per i nostri dal limite dell’area. Sulla battuta, la barriera s’alza in volo e respinge. Ma l’arbitro – che dimostra istinti suicidi – vede un tocco di mano ed indica il dischetto. Il “Lamberti”, lo si percepisce, diventa un inferno. Ma il Foggia passa ugualmente. In campo scatta la caccia all’uomo, mentre da noi la bolgia è furiosa e mesta al contempo: si intuisce, dopo Taranto, che questa squadra caccia fuori gli artigli solo quando non ci siamo. È la prima volta che passiamo in vantaggio fuori casa. I cavesi attentano alle caviglie, alle tibie, ai peroni, ai crociati. L’arbitro – che dimostra un sussulto d’attaccamento alla vita – non prende provvedimenti. E quando rinsavisce, al secondo minuto di recupero del primo tempo, concede un rigore anche ai padroni di casa, che pareggiano. Ed evita, per un pelo, una passerella nel sottopasso che nemmeno alla naja.

Antonio scrive un sms: “Speriamo di perdere”, a metà tra l’ironico e l’effettivamente traumatizzato. Ma non perdiamo. Anzi, nella ripresa evitiamo accuratamente di soffrire. Ci prendiamo il punto e restiamo a domandarci se ne abbiamo persi altri due. Ma non importa. I nostri hanno tenuto la testa alta dinanzi ai provocatori cavesi, e questo – nella mentalità di un tifoso – conta più della posizione in classifica. Infinitamente di più.

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