16/08/10

Alors on dance

Sabato 14 agosto, L’Aquila-Foggia 1-2

La vigilia, si sa.
A volte la vigilia è l’evento. Meglio dell’evento. Stavolta è dura. Ha il sapore minerale della Zubrobka – vodka polacca giunta ai nostri stomaci italici direttamente dalla italianizzata Breslavia – e l’odore di pareti ospedaliere. Notte al Pronto Soccorso, senza collassi di sorta, ma con svariati colpi di testa e cani che mordono strazzati. Il silenzio è rotto, fuori è ancora estate, ma la Coppa disarciona la tregua non voluta. Posso fumare tranquillamente, godermi il contesto. Ambulanze, guardie giurate. “Ma la cattedrale di Foggia è ancora chiusa?”, “Si, per restauro”, “Ah”. Al mattino gli allibratori quotano basse le assenze. La vigilia tosta lascerà i segni, dicono gli esperti. Invece. Valerio, alle 11, è già pronto all’avventura. Angioletto lo raggiungerà di lì a poco. Noi, sciarpe di lana sotto i 35 gradi della landa, ci incamminiamo che manca un quarto a mezzogiorno. Non si partirà prima dell’una, e possiamo goderci l’ottimismo. L’ottimismo voltagabbana e un po’ paraculo di questa città. Solo pochi mesi fa – prima dell’avvento della Triade – bastava che i passanti scorgessero quei colori, associassero le t-shirt alle gloriose rossonere, perché scattasse – blanda e qualunquista – la cataratta dei commenti di disfatta. “Angor appriss o Foggije?”. Stamane, invece, camminiamo come cavalieri dell’onore tra ali di popolo festante. Avanguardie di un altro sistema solare, direbbe il Vate. “Auguri ragazzi”, ci incoraggiano. E ti viene voglia di prenderli a schiaffi, questi volubili concittadini. Ma l’entusiasmo supera i malumori. Stiamo per ricominciare, per ripartire, e la sola idea dei chilometri da fare pompa felicità, rassoda i muscoli, rinfresca l’aria. Ci siamo tutti. Due macchine pronte, una terza parzialmente occupata ci raggiungerà dalle spiagge, tra qualche ora e più a Nord. L’Aquila, Coppa Italia di Lega Pro. Basta la parola. Basta il pretesto.



Vamos a bailar est avida nueva. L’autogrill di Bucchianico, i furgoni, il labirinto che si popola. “Chi siete?”, “Studenti in gita”. Del resto non c’è un’età per la maturità. E spero di non conoscere mai chi racconta il contrario. Perché mi piace. Sgranchirmi le gambe, salutare tutti – “buongiorno!” – guardare i Marshmellows sugli scaffali, pisciare ai wc al muro, lavarmi la testa, dire che si, lo voglio il caffè, perché no, e poi passare alle birre. Riti che annullano la pigra stagione del nulla. E di nuovo sulla strada. Il convoglio, “una delle meraviglie della natura”, per dirla alla Homer Simpson. L’Abruzzo aspro e montuoso, le strade interne che tagliano i massicci. Esordisce il nuovo Foggia con Zeman in panca, e i più spudorati – dopo quindici anni – rispolverano il termine di Zemanlandia. Termine su tutti offensivo della nostra storia. Ma non è solo quello. È l’impressione motivata, la sensazione pluri-dimostrata in queste settimane di calore improvviso, che la gente abbia deciso – nel nome dei tempi andati – di fare quadrato attorno alla squadra. Di ossequiare i nuovi-vecchi padroni con un bagno di rinnovato calore. Un’effervescenza che ha portato semisconosciuti e juventini riconosciuti e conclamati a mettersi in fila per l’abbonamento e, quel che è peggio, a sottoscrivere la Tessera come atto di fede zemaniano. La società non ne comunica il numero, a Casillo non piace seminare disfattismi, ma di certo si supereranno abbondantemente i 1.800 dell’anno scorso. Con quel che ne conseguirà.

Un bar di cui è sopravvissuta la sola insegna; una casa al passaggio a livello piegata su se stessa, come implosa; le travi a sostenere le facciate di tre palazzi d’epoca. I segni del terremoto sono più che visibili. La disorganizzazione regna sovrana. Ci sono cose più importanti di una partita di calcio a cui pensare, certo. Ma a questo punto, evitiamo di farle disputare, queste partite inutili. Altrimenti: servirebbe qualcosa di più di una semplice coppia di vigili urbani a farci segno con la mano di svoltare a sinistra, di inerpicarci su una salita alla cui sommità non c’è che la strada del ritorno. Il convoglio gira in tondo, circumnaviga i fari dello stadio – di cui si ha sentore ma che non si vede – taglia schiere di villini, compie manovre ardite, inversioni di marcia collettive, intasa il traffico per tenersi contiguo. A vuoto, per almeno venti minuti. Nessun presidio delle forze dell’ordine, nessun cartello. Diversi ragazzini aquilani – con tanto di magliette ultras – a sgranare gli occhi al passaggio, increduli di tanta libertà concessa alla numerosa pattuglia ospite. Un carabiniere ci sbarra la strada. L’ennesima manovra di ripiegamento. Aggiriamo diversi isolati, sbuchiamo al “parcheggio” dopo altri cinque minuti di approssimazione. Quando finalmente scendiamo dalle macchine, il carabiniere di prima – col suo posto di blocco – ce lo ritroviamo di spalle. “Ma come? Ci hai fatto fare il giro ed eravamo arrivati?”. Un piccolo focolaio di tensione. Dentro. “Non serve il documento”. Certo, il primo biglietto dell’epoca del tesseramento dei tifosi non è neppure nominale. Meglio così.

Il settore è in gradinata. Un’invisibile linea invalicabile lo divide in orizzontale. Sopra, in piedi o finanche seduti, videocamere e digitali alla mano, ci sono quelli che di solito non ci sono. Gente per bene, per carità, ma l’impressione è quella di cui sopra: Zeman ha trasformato queste persone, ne ha alimentato la curiosità, ne ha stimolato gli istinti, li ha conquistati col potere del sogno. O della ripetizione dello stesso. Sotto, a torso nudo e in corrispondenza delle pezze, ci sono gli altri. Quelli di Cosenza e di Trieste. Per non dire quelli di Palma Campania, di Battipaglia, di Ragusa. Per carità: siamo contro i giudizi di valore, ognuno della sua vita – ed anche della sua passione – fa quello che vuole, e qua non si guadagnano gradi e denari. È per puro dato statistico che si sottolinea quel che si vede: tra l’alto e il basso, tra la Montagna e la Pianura, la Gironda e il resto, c’è una faglia. I settori ospiti sono due. E forse, dalla prima trasferta con l’obbligo della Tessera, questo fatto diventerà ancora più fisicamente visibile. Da quando sei in C non ti seguono più, è il primo coro che s’alza dai bassifondi. E non è un caso. Si riprende confidenza. Le corde vocali sotto tensione, un colpo di tosse. Un coro breve, uno lungo, uno secco. E poco alla volta, col passare dei minuti, ricarburiamo. Attorno a noi, lo stadio-velodromo aquilano. Una cinquantina di ultras nella curva alla nostra sinistra, tanta gente in tribuna, sole e nuvole in alternanza. Qualche sfottò, il giusto per le dimensioni dei rivali e per finire sulle pagine scandalizzate del Corriere della sera come prima tifoseria ad aver insultato i padroni di casa dal drammatico sisma dell’anno scorso. Ma c’è una rivalità da onorare, senza falsi buonismi e senza sciacallaggi. C’è il passato a testimoniare ciò che il Corriere non sa. E che chi sa, sa. Stop. Passiamo in vantaggio. Botta da fuori, dicono. Io non l’ho visto, e come me diversi dei nostri, impegnati in una fondamentale discussione sull’opportunità di una sciarpata. Un ragazzino viene sotto il settore. Esulta come Giovinco, ma soprattutto esulta. Come se fosse un gol decisivo. Ragazzi dagli entusiasmi facili. Eppure: il centrocampo è tosto, o così sembra: regge, lotta, non demorde. Le sovrapposizioni, quelle, sono le solite di sempre, magari con qualche tossina da smaltire nelle gambe. Col risultato, solito anch’esso, che ci si difende in tre, quando non in due, e con la linea molto alta (anche se non ancora a centrocampo, ma diamo tempo al mister). L’uscita del nostro portiere di testa alla trequarti mi provoca un brivido nella schiena. Uno dal settore richiama l’attenzione del loro estremo difensore: “Portiere, vergognati… quello c’ha 16 anni!”. Cantiamo, che è meglio. Loro pareggiano su calcio piazzato, prendono coraggio. Noi eseguiamo il nostro repertorio. Siamo già in forma.

Nell’intervallo Enzo ci sorprende in bagno a chiacchierare e si fa prendere da una crisi di gelosia. Teme, come Berlusconi coi finiani, che le correnti interne si trasformino in aperta sfida. Teme, probabilmente, che vengano fuori documenti compromettenti riguardanti il concetto di Circo Equestre e le sue declinazioni. Viene calmato. “Stavamo solo parlando del ritorno”. È scettico, non ci crede. Ma si tranquillizza. Fuori, tutti discutono con tutti. Si chiede alla forza pubblica a chi è saltato in mente di far parcheggiare un bel numero di macchine in un improvvisato parcheggio a due chilometri dallo stadio. La risposta è più o meno la solita: “Abbiamo cose più serie a cui pensare, all’Aquila”. Si, ok, ma per quanto tempo andrà avanti questa storia? Riprendiamo le nostre posizioni, e nel secondo tempo il Foggia sembra già una squadra rodata. I più saggi smorzano gli entusiasmi facili: “L’Aquila è una squadra di D ripescata in C2”. Certo, ma qui tutti aspettano da troppo. E, a cavallo del 2-1 per noi, il settore esprime il suo meglio. La suburra coinvolge la città alta in un paio di stornelli seri. Poi, si da il via al cabaret. E lì, in quei dieci minuti passati tra Celentano e balli di gruppo, c’è tutto lo spirito di questa scarpinata estiva. Il piacere infantile, le risate. Gli aquilani si fanno sentire con un coro. Vi vogliamo così. Poi torniamo con lo sguardo al campo: Sospendete la partita! Dura ancora poco. Poi finisce – “E l’anno prossimo veniamo con la squadra buona” – con gli undici già sotto il settore e molti sguardi incuriositi. Quei ragazzi hanno avuto un assaggio del nostro sostegno. Non resta che sperare che lo meritino. Innamorati di questa maglietta, onorati di questa città.

Alors on dance!

1 commento:

Anonimo ha detto...

Altissimo, il livello è altissimo.

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