23/08/10

Il signor S.

Ho visto il signor S. puntare dritto alle transenne. Aveva fretta. Aveva ragione: in fila scomposta, per entrare all’Aragona di Vasto, c’erano almeno duecento persone. Mancavano pochi minuti alle 17, fischio d’inizio di Foggia-Giulianova. Coppa Italia Lega Pro. Erano anni che non lo vedevo. Anzi, adesso che ci penso, non penso d’averlo mai visto. Ai tempi della saletta, mi pare di ricordare, tifava Milan. O Juventus. Di sicuro c’era il divertente siparietto degli sfottò, ma non ricordo se con Gianni, che era milanista, o con Maurizio e Angelo, che erano juventini. Ho seguito il suo passo affrettato. Non mi ha visto. Meglio così. Sarebbe stato imbarazzante. Nel senso: ci saremmo salutati calorosamente con la manina, e la totale mancanza di senso di colpa nel suo sguardo aperto avrebbe riempito di imbarazzo me. Talebano luterano. Ci ripenso: forse ha ragione lui. Certo, mi capita di pensarlo spesso, per tanti ambiti della mia vita. È solo una partita di calcio, mi avrebbe fatto capire il suo saluto, ed oggi avevo proprio voglia di veder giocare al pallone. Come quando con zio Giuseppe andavamo, la domenica mattina, a vedere la Juve San Michele o le sfide epiche sul campo di San Ciro. Il calcio minore, l’unico che piacesse a zio Giuseppe. Ma non è nemmeno questo il punto: il punto è che il campo sportivo, come si chiamava una volta, dovrebbe essere il luogo della libertà. A Foggia, a Milano, a Liverpool. Ovunque. Un appassionato di calcio potrebbe, all’improvviso, avere l’impulso di andare a veder tirare calci ad un pallone. E dovrebbe, ovunque, poterci andare. Così, per puro diporto. Come al cinema, a teatro, ad un concerto. Fare la fila al botteghino, anche dieci minuti prima dell’evento, ed entrare. E godersi la sua passione. Se la sua passione è assistere. Ha ragione lui. Hanno torto gli altri. Quelli che hanno blindato, recintato, militarizzato gli stadi. Quelli che hanno reso l’esercizio della passione più difficile di un tremila siepi ai tempi di Antibo. Dovrebbe essere un piacere vedere il signor S. allungare il passo per guadagnarsi il varco. Invece, visti i tempi, faccio di tutto per evitare il suo sguardo allegro. Perché questo sporco gioco al massacro me lo ha reso antagonista, quasi nemico. Come quei rumeni che, spinti dal bisogno di raggranellare euro, accettano una paga da fame e mi tagliano fuori dal mercato del lavoro. Dovrei prendermela con le alte sfere, certo, ma non riesco a liberarmi di quell’idea di complicità che m’assale. Complici. Collaborazionisti. I rumeni e il signor S. Stessa pasta. Ognuno pensa ai cazzi suoi e gli altri si arrangino. Dovrebbe essermi entrato in testa, dopo trentaquattro primavere. Invece. Invece continuo a pensare che la vita sia fatta di scelte. Tendere alla dignità, a quel minimo di coerenza che siamo sempre pronti a rimproverare come assente negli altri impalpabili, ma che raramente ci sogniamo di applicare alla nostra quotidianità. Una partita di calcio non è niente. Ma è un simbolo. Lo penso mentre vedo scorrere la fila a strattoni. Gente che da due, cinque, dieci anni non metteva piede allo stadio, con la voce pronta ad osannare i nuovi eroi. Capita sempre così. Gente che non s’è mai vista – potrei fare nomi e cognomi, ma non mi va – fototessera alla mano a sottoscrivere i dati della Tessera del tifoso. A collaborare, fingendo innocenza, con quel sistema che sta ratificando la mia fine. La fine del calcio per come lo intendo. Innocenti, deresponsabilizzati. Non è colpa loro, dicono, se c’è qualcosa di sbagliato nel sistema, prendetevela col sistema. Già, come se fosse facile reperire l’indirizzo di casa del Sistema, questo tutto/nulla che annienta il volere soggettivo, che impedisce l’opposizione e la pratica della dignità. Come l’impero di Toni Negri. Senza cascate piramidali. È così. O forse ho torto. Fatto sta che ad un certo punto l’Aragona rossonero è esploso di gioia. Il Foggia aveva segnato. Noi eravamo fuori, ad attendere il resto della compagnia. Ed è stato come essere proiettati in un futuro prossimo venturo, esclusi dal giro, dal gioco, dal palcoscenico che pensavamo c’appartenesse. Pugnalati alle spalle da una manica di assassini anonimi, tutti con delle ottime ragioni private, e nessuno con chiari moventi. Assassini senza colpa, senza rancore, senza odio. Con indirizzi di casa conosciuti eppure intoccabili. Limpidi come bambini appassionati di una girandola.

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