20/10/08

Il pensiero compulsivo

di Lobanowski 2

Domenica 19 ottobre, Foggia-Sorrento 3-1

Ci sono partite non chiuse che bruciano come ferite di guerra. A distanza di anni. Al variare delle stagioni. La radio era il nostro unico appiglio. Ci incontravamo dopo pranzo, lavoravamo di manopole, ci accampavamo intorno ai transistor come pellerossa attorno al fuoco. Il Foggia giocava a Cremona, nell’anno della promozione in B. Con Zeman in panca. Il chiosco delle bibite osservava il turno di chiusura settimanale. Sul retro, l’orinatoio a cielo aperto. Effluvi pestilenziali a scaglioni. Restavamo in ascolto dell’onda vincente. Come surfisti. Di tanto in tanto un pensionato chiedeva. Uno si accomodò tra noi. Il cronista disse che in campo c’era solo il Foggia e da un momento all’altro avremmo colpito. Lo 0-0 stava stretto. Fu quello l’attimo esatto in cui m’accorsi di possedere la dote di poter vivere esperienze extracorporee. Mi vidi dall’esterno, staccandomi dal corpo come resina da una sequoia. Vibrai a mezz’aria e fissai il mio pensiero, come si fissano i dirimpettai in treno. La comunicazione fu teologica e ben presto si concretizzò in una muta preghiera ascendente: Fa che tutto resti com’è, fa che tutto resti com’è, fa che tutto resti com’è. Un mantra, una litania, un rosario greco. La certezza di possedere una speranza che si faceva carne lasciava spazio, in controluce, al terrore di vedere il castello dei sogni disfarsi. Perdemmo due a zero. Da allora porto nel doppio fondo del cuore questo fardello, questa dote segreta: cristallizzo l’attimo in cui non possiamo perdere, in cui tutto è perfetto. Che coincide, immancabilmente, col voltafaccia del fato. Da quel giorno non voglio sentire che è fatta, che tutto è nelle nostre mani, che il destino dipende da noi. Né voglio pensarlo di mio. Frasi tipo Stiamo giocando troppo bene o Ci manca solo il gol, mi fanno scuotere la testa nel tentativo di scacciare l’impulso intruso. Ma, di solito, è tardi. Quando Cassano fallì il 2-0 con la Svezia all’Europeo pensai: la qualificazione è a portata di mano; quando mancavano 5’ alla fine dei play-off di Avellino, mi ritrovai a pensare che, cazzo, mancavano cinque minuti. E, manco a dirlo, a Cremona, tatuaggio che non smette di sanguinare. Mi limitai a passare in rassegna – volto per volto – l’intera fetta di settore raggiungibile dallo sguardo, e dire tra me e me: è troppo bello. Stamattina mia madre mi ha chiesto: Ma quando ti sei laureato, di preciso? Ho risposto: Non mi ricordo, di sicuro il 25 maggio ero a Cremona.

Fermenti lattici per sistemare lo stomaco. Dieta ferrea per mantenerlo sotto la soglia di galleggiamento. Il mio pensiero compulsivo è giunto quando il pallone, scalciato lontano da un nostro difensore, si è infranto sulla vetrata della gradinata. Bum. Da un po’ non riusciamo a far entrare in azione il centrocampo, da un po’ non sfruttiamo ordinatamente il disordine offensivo del Sorrento. Uno dei loro, palla al piede, ha cercato di incunearsi. Uno dei nostri lo ha stoppato e mandato fuori. Bum. Il pallone è fuori. Penso, e non lo faccio di proposito: Certe partite si chiudono. È un segnale, un dannato campanello d’allarme. Guardo gli altri attorno. Come per scrutare le loro espressioni. Come se il mio personalissimo presentimento camuffato fosse stato irradiato dai megafoni. E debba accertarmi delle reazioni. Niente, penso, non è niente. Vinceremo ugualmente. Stiamo vincendo, difatti. 1-0. Ha segnato Salgado alla mezz’ora del primo tempo, ed abbiamo avuto anche la palla del raddoppio. Poi, certo, loro hanno spinto. A dire il vero, hanno anche fallito un rigore. Parato, più che altro, ma non conta. Il Sorrento gioca alto, come non si dovrebbe. I nostri dispongono di praterie su certe ripartenze, specie a sinistra. Dio, perché non raddoppiamo? Salgado, ad un certo punto, è falciato dall’ultimo difensore. Ma era in fuorigioco. Proviamo il tiro dagli spigoli dell’area in parità o in superiorità numerica. Bum. La palla è sulla vetrata ed io comincio la mia traversata sui carboni ardenti. Bisogna sfatare anche questo pregiudizio, questa dannata premonizione, questo superpotere infame. Canto, ma anche la curva è più blanda che sullo 0-0. Al rigore parato l’urlo è stato paralizzante, il coro successivo da lacrime agli occhi. Una di quelle cose che ti inorgoglisce, come se fosse merito tuo. Canto: Ora, tutta quanta la, curva, canterà per te, Foggia, devi vincere, Foggia, devi vincere, Ora… Di fronte ci sono 50 tifosi avversari. Hanno tre o quattro pezze, diversi tricolore. Erano gemellati coi cosentini, si, ma anche coi massesi. Il che non depone a loro favore. Li guardo, poi guardo il campo, poi loro, poi il campo. S’apre una voragine, chiamiamo un fallo che non c’è, uno in maglia bianca lancia un compagno, la palla passa sotto le gambe di uno dei nostri, uno dei loro – non so come – si trova davanti al nostro portiere, botta di destro, guardo loro, esultano. Cazzo. Vorrei sprofondare. Mi si legge in faccia che è tutta colpa mia. Vorrei spiegare a questa gente che non c’entro, che il pensiero compulsivo è scollegato dalla volontà. Che proprio per quello è compulsivo. È una sindrome, maledizione. Ho un problema, non è bello infierire. Non è terapeutico.

Però pure sta squadra. Lo sapevamo tutti che sarebbe andata a finire così. È inutile che fate no con la testa. Gianni, vestito ancora da pasticciere, alla prima uscita stagionale, maledice la sua presenza. La superstizione è pianta rigogliosa, nel sonno della ragione. Abbiamo preso il primo gol in casa e mancano 25 minuti. Il pensiero compulsivo della perfezione ha colpito ancora. Eravamo lanciati verso il secondo posto, porco di un Giuda. Il Gallipoli perdeva in casa con l’Arezzo, alla bolletta Snai mancava solo l’uno del Potenza. Ed ora eccoci qua, a rifiatare per ricominciare la scalata. Di nuovo. La Sud è un polmone in difficoltà, il canto parte e si smorza, non supera la prima strofa, non diviene refrain. Dobbiamo rialzarci. La partita non si guarda, la partita si pedina, come un cane da caccia. Bisogna sostenere i ragazzi, che sono si beni fungibili, ma hanno anche una loro sensibilità attuale. Si dice. Con calma e con pazienza si rianima il malato. Sostegno ci vuole, sostegno. In campo i nostri sembrano scuotersi. Il pareggio non sta bene neppure a loro. Costruiscono. Una parte della mia psiche comincia a sperare: vuoi vedere che riusciamo a scacciare i demoni… E vuoi vedere che per scacciarli bisognava andarseli a cercare in qualche girone infernale? Facciamo il nostro dovere, alziamo le mani e incitiamo all’unisono. La Sud è ancora un posto meraviglioso dove vivere. A dieci dalla fine un cross dalla sinistra finisce con l’arbitro che indica il dischetto. Non ho visto niente. Mi dicono che un sorrentino ha deciso di smanacciare, senza pericoli incombenti. È un segno. Batte Salgado (questo lo scoprirò dopo). Il portiere intuisce ma non respinge. È il 2-1 che attendevo, è un peso che svanisce, una responsabilità in meno in questa vita dalla Moleskine fitta di appunti a penna. Levatevi di qui, levatevi davanti.

Il terzo gol, ancora di Salgado e ancora su rigore, è un semplice sigillo su un atto già vidimato. L’applauso è ritmato, liberatorio. Una voce radiomunita garantisce che Gallipoli ed Arezzo si sono accontentate del pari. Siamo terzi da soli a 16 punti. Il Potenza ha battuto 2-0 la Pistoiese, garantendo altri 113 euro alle mie finanze precarie. Anche a Ceska sta scemando il mal di testa. E posso gestirmi una mezza torta pronta della Cameo. It's a beautiful day, Sky falls, you feel like, It's a beautiful day, Don't let it get away.

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