27/10/08

Faccia a faccia con l'oracolo

di Lobanowski 2

Domenica 26 ottobre, Marcianise-Foggia 1-0 (sul neutro di Caserta)

Il pullman. Un’esperienza che mi mancava da Andria. Da quando, con precisione? Mah, qualche tempo fa, un attimo che cerco nella cassettiera, dovrei avere anche il tagliando d’ingresso. Persi un accendino nero, molto prezioso, ad Andria. Prendemmo due reti sul muso. Poco tempo fa. Ecco. Novantasei, Novantasette, Novantotto, tutt’al più. Il ragazzo che siede sull’altra fila si sfila gli occhiali da sole. Si sporge in avanti, verso il centro della moquette che ci divide: “Com’è sta storia? C’era un torneo anglo-italiano? Ma per caso è quello che le squadre italiane vincevano sempre finché non abbiamo partecipato noi?”. No, quello è la Mitropa. L’Anglo-italiano è altra storia. Otto squadre della nostra cadetteria contro otto equivalenti d’Oltremanica. Due gironi, o quattro, da cinque o sei squadre cad. A Foggia, nello spicchio di tribuna, calarono i tifosi dello Stoke City e quelli dell’Ipswich. In venticinque, con tanto di pezze britanniche. La finale sempre a “Wembley”. Ci sono stati i genoani, i bresciani, i ridicoli cremonesi. Il ragazzo mi guarda: “Ma quando succedeva tutto questo?”. Mah, qualche tempo fa, che sarà stato… Il Novantacinque, Novantasei tutt’al più. Un frangiflutti di silenzio. La consapevolezza che cavalca l’onda. Dodici anni fa. Cazzo. Devo smetterla di parlare come il giovane che non sono più. Lello fa un rapido calcolo, affonda nei pensieri matematici e riemerge con una sconcertante certezza: alcuni di questi ragazzi non hanno mai visto nient’altro che la Serie C. Me lo confida con raggelante sicumera. Uno sguardo avanti e indietro: come se stessi guardando deportati destinati alla pena dell’inedia perpetua. Il nucleo è tutto nella percezione degli eventi: quando ero ragazzino io il Foggia languiva in C1 da un po’, ma al sesto anno di terza serie, la gente non ne poteva più. Oggi siamo già alla decima stagione – tra C1 e C2 – e, nei monologhi dell’epica, sembra sempre ieri che battevamo la Triestina e riempivamo via Parisi di striscioni per la storica promozione in A. Il tempo è un gran dissimulatore.

Mattia aveva occupato il posto vuoto lasciato da Giuseppe, improvvisamente influenzato. Non si è presentato all’appuntamento. Un mantra di maledizioni e bestemmie ha accompagnato la sua assenza. Nessuno da chiamare per procedere all’improvvisa, seconda sostituzione. Nessuno da svegliare. Ci piace pensare che abbia sbagliato pullman. Che ne abbia preso al volo uno di pellegrini diretto a Pietrelcina o a San Giovanni Rotondo. Lo immaginiamo che scandisce cori nella chiesa dei cappuccini: Batte solo per te!
Si parte. Il caldo è opprimente e toglie ossigeno. Siamo quasi a novembre e non vuole saperne di raffreddare. Le volute del fumo ingombrano un ambiente già saturo. Il viaggio è breve, si può sopportare. Alle 11 siamo all’Ipercoop. Via Ascoli. L’autostrada a Candela. Viene servito del whiskey da discount, che sembra tequila o mescal. A Lacedonia in molti già cantano. Si passa al vodka-lemon, senz’altro meglio. Gira Fan’s magazine. Volano scarpe. Ci accostiamo ad una piazzola per venire incontro ai primi prostatici provati. In 36 minuti netti siamo a Bisaccia. L’autista è un decisionista. Daniele si unisce alla festa. Mi rilasso e m’accorgo che, forse, sarebbe stato meglio anche per me scendere alla piazzola. Al centro si poga. Il Foggia è tutto per me, il Foggia è tutto per me. Il pullman ondeggia. Avellino Est. Chiedo quanto manca con sempre maggiore ansia. Adesso ho sul serio da pisciare, e mi maledico come un eretico. Lello matematico profetizza 40km ancora. Mi alzo, mi siedo, provo a distrarmi. Fisso la strada davanti. Una pattuglia di polizia ci sorpassa e prende in consegna il pullman. La scorta. Il risultato è un brusco rallentamento nel contachilometri: si cala a 40 all’ora. Il mio viaggio incontinente diventa un penoso rallenty. Uno, evidentemente nelle mie stesse condizioni, prova a perorare la causa: “Ci accostiamo?”. Una voce gli risponde dalla testa del mezzo: “Si, a Caserta”. Ridono tutti. Rido anch’io, ma sotto sotto spero che la polizia ci speroni ed ordini una perquisizione. Avrei tutto il tempo per liberarmi. Al casello di Caserta Nord sono speranzoso. Poco prima del telepass, ci fanno accostare. Scendiamo tutti, ad attendere il resto della carovana rossonera. Il sole è alto e bollente, sacchetti d’immondizia oltre il reticolato, l’asfalto scotta, i rami degli alberelli sono rinsecchiti e pungenti. Non sono né un ladro, né una spia. È una giornata meravigliosa.

L’avevo contemplato tra gli incubi possibili nella disperata notte adriatica del dopo-Cremona, quando si passavano in rassegna le potenziali avversarie di questa nuova stagione di C1. Annoverato unitamente al Mezzocorona, al Pergocrema. Alle 13 in punto, l’incubo Marcianise si è palesato: fabbriconi vetrati a specchio, cemento ad avvolgere piloni armati, terra arsa e chiazze di erba desertica, ai fianchi. Colline, in lontananza, l’incombere di Napoli e del suo vulcano. Il filare di imprese di trasformazione, il brullo e assetato contorno di una strada extraurbana. Tutti al finestrino, qualcuno invita a tenere sempre gli occhi aperti. Da vent’anni non giochiamo a Caserta, ma i rapporti non sono mai stati buoni. Può essere che qualcuno se ne ricordi. Invece no, qui è sul serio un deserto. Il canto riunisce il mezzo: Canterò, per sempre canterò, Rossoneri alé, Sempre insieme a te, Fino a quando fiato non avrò, Rossoneri sosterrò. Siamo a Caserta città. Un parcheggio per gli ospiti, vediamo macchine. In tanti sono arrivati così, sfidando le macumbe di un passato ignorato. Noi tiriamo dritti, fino alla caserma e, oltre ancora, alla porticina d’ingresso al “Pinto”. Biglietti alla mano, continua a ripetere la polizia. Noi dobbiamo aspettare Guido. Una telefonata al cellulare. Sono in centro. In centro a Caserta. Le mie preoccupazioni militari sono vecchie come i miei ricordi? Arrivano. Entriamo. Welcome to Eighteen.

Siamo in gradinata. Alla nostra destra la curva, a tuttotondo, dei tifosi di casa. Che non ci sono. Qualcuno dice “gli ultras del Caserta”. Scommetto che in pochi saprebbero dirmi dei Fedayn Bronx, della cupa meraviglia che mi ha sempre ispirato quel settore. Lode alla Casertana e alle battaglie di un tempo. Il Caserta? Non so cosa sia. In tribuna ci sono i pochi spettatori non foggiani. In un angolo, sotto il sole che mi ferisce la cornea, due striscioni di ultras locali. Ma quanti colori ha il Marcianise? Effettivamente c’è del verde, del giallo, del rosso, del blu. Srotolo la bandiera e ci conto. M’informo. Ci contano in tanti. La Snai ha quotato 2,70 la vittoria corsara del Foggia. L’hanno giocato tutti. Mi guardo attorno. Saremo trecento, qualcosa in più. La bandiera dell’Angola è stata bloccata all’ingresso. L’uomo della digos è venuto deciso, determinato. Non si possono portare simboli politici. Rispondiamo che non ce ne sono, che è una bandiera di uno stato africano, occasionalmente rossonera. Quello scuote la testa: Non prendiamoci per culo, dice, la prossima volta vi diffidiamo. Sarebbe interessante. Potremmo chiedere a Mattia di portare la bandiera, domenica prossima. Otterremmo la sua diffida e la possibilità di aprire un caso mediatico. Due piccioni con una fava. L’urlo è possente. Noi-Vogliamo-Questa-Vittoria. Il rimbombo s’annida sotto la tettoia della tribuna. Come a Manfredonia. Battimano convulso. Noi vogliamo questa vittoria. Invece è il Marcianise a segnare. Vedo poco, pochissimo, e quel poco lo individuo ad altezza d’uomo. Mancano aria e spazio. Ma quando sento il boato di disapprovazione, capisco che sta succedendo qualcosa. E uno in maglia gialla appoggia a porta vuota. Gossip: pare abbia sbagliato un tale Lisuzzo. Lo apprendo in fila al chioschetto, un varco nel muro del “Pinto”, modello botteghino. Due bottiglie d’acqua e due Borghetti. 5 euro. Fattibile.

Nella ripresa incitiamo, a tratti i decibel sono notevolissimi, ben oltre questa categoria che non meritiamo. Ma questo è scontato. Il Foggia gioca una partita pessima, non giunge mai ad impensierire la difesa avversaria. Perde, meritatamente, senza mai darci un’emozione, senza mai coinvolgerci in un sussulto. Personalmente, mi sembra sia durata venti minuti in tutto, questa gara. In bagno c’è chi gioca a nascondino con un carabiniere. L’effetto eco amplifica gli sfottò e moltiplica i possibili colpevoli. Il carabiniere viene allontanato da un collega, prima che si metta ad urlare. Si strappano quintali di bollette. Qualcuno si informa sulla serie A. Il Napoli che sbanca l’ “Olimpico”, il Genoa che regge a “San Siro”, la Roma che frana al “Friuli”. Dagli zainetti spuntano panini salame e melanzane sott’olio. L’autista accende le luci ruffiane e lancia una compilation dance anni Settanta e Ottanta. La comitiva di soli uomini si concede una festa da ballo. Due ore di autostrada davanti. Un solo autogrill in mezzo. La coabitazione forzata con una comitiva di pellegrini salentini. A chi ci chiede del Foggia, rispondiamo che ha vinto uno a zero e che questa è l’annata buona. Quelli ci credono e per poco non litigano tra loro. Quattro ragazzi con sciarpe biancoazzurre ci vengono incontro in pace: Siamo materani. Il coro a seguire è ovvio: Noi non siamo napoletani

Pocket Coffee, Ceres, Coca e Sprite. Il buio del pullman, il nuovo silenzio dello stereo. Le telefonate di amici e compari: Dove siete? Boh, mi pare dopo Benevento. Un’oretta all’arrivo. Autista, accelera, che la trasferta è bella quando dura poco. All’Ipercoop c’è la folla delle grandi occasioni. Il traffico è intasato. Decidiamo: torneremo a casa sventolando, per raccogliere il disfattismo della popolazione. All’altezza del mercato Rosati una comitiva di adulti: Che ha fatto il Foggia? A loro non mentiamo: Ha perso, uno a zero. Quello, che alle 19 e passa ignorava bellamente il risultato, scuote la testa preoccupato e consapevole: Facciamo schifo. Già, facciamo.

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