03/11/08

Uno striscione nell'angolo: Ciao Massimo

di Lobanowski 2

Sabato 1 novembre

Facebook. L’ho scoperto che già i giornali parlavano di boom. Di mania. Di solito, quando succede, i fenomeni sono pronti a snaturarsi, a cambiare pelle, ad assecondare il trend. O l’hanno già fatto. Io avevo un nome collettivo da presentare e un bel po’ di foto da condividere. Ho aperto una finestra, ho completato l’iscrizione. Una trentina di richieste d’amicizia in tre giorni. Niente di eccezionale. Qualche rifiuto, qualche scambio d’opinioni, qualche test dal risultato scontato e la possibilità di immaginare Billy Bragg – il menestrello della working class – intento ad osservare il nostro murales. Soddisfazioni da poco, in fin dei conti.
Non pensavo che Facebook potesse avere altre modalità d’uso.
Invece.
Ho saputo dell’incidente da Daniele. Lo avevo chiamato per una cazzata, per sapere come conteggiare i Senza Voto di Roma-Sampdoria. Fantacalcio, roba così. “Ma non sai niente?”, mi fa. No. Poche ore dopo la notizia era in coda a tutti i tg. Un’auto pirata, un criminale potenziale, un distratto cronico al volante. Su una strada secondaria, buia e intasata di macchine ferme ai due lati della carreggiata. C’era una festa, la notte di Halloween. Una festa per autoconvocati, un locale affittato in aperta campagna, le luci della città in dissolvenza. Qui non siamo a Brescia o a Piacenza. Non siamo nella piana lombarda, e neppure nell’opulento Nord-Est. Qui le feste di fanno così. I ragazzi si ritrovano, montano l’impianto, spargono la voce. L’illegal da queste parti è regola da prima che facesse tendenza. Regola di sopravvivenza. Se vuoi sfuggire alla noia, prefissarti una meta, ti auto-organizzi. Perché, stai pur certo, nessuno lo farà per te.
Ne ha parlato Rai Uno. Ne ha parlato il Tg Cinque. Nella lunga sfilza di poveri nomi stroncati da alcolizzati e drogati, come ripetono spesso i cronisti ingordi di fetish. Tra le immagini in movimento statico di carcasse e chiazze di sangue sull’asfalto. Ventisei anni, Massimo. Stava tornando alla macchina, parcheggiata in fondo al buio, con un’amica. Il pirata ha lasciato un fanale a terra. L’urto dev’essere stato violentissimo, la velocità alta, altissima, in un punto dove già a 40kmh si può uccidere.
Un refrain: “Lo conoscevi, lo conoscevi senz’altro, l’hai visto di sicuro”.
Gli amici me lo descrivono. Loro si che lo conoscevano bene. Qualcuno benissimo, fino ad avergli affibbiato quel soprannome che aveva annullato il cognome: Kravatta. Con la K. Un ragazzo d’oro, dicono. Un lavoratore, uno che non ha mai rinunciato a spezzarsi la schiena. Uno col senso dell’umorismo, uno di quelli che la sera speri di incontrare al Cicchettaro, per farti due risate.
Così è andata anche l’altra notte, mi riferiscono. Ed io non visualizzo la sua faccia.
Sento, con gli altri in silenzio, il tg di Sky. Poi quello di Telefoggia, che riporta ed amplifica l’invito della polizia all’investitore: costituisciti, che è meglio. Si parla di un paio di telecamere che avrebbero inquadrato la macchina in fuga. Ma di notte, con un paio di fotogrammi, c’è poco da sperare. Probabilmente lo fanno per far cedere la coscienza alla paura.
Carnagione scura, pizzetto lungo, occhiali. Non riesco a ricordarlo.
Poi arriva una richiesta, qualcuno che lascia messaggi di cordoglio sul web. Facebook. Pensavo servisse solo a farsi amici che vedi sempre, o amici che non vedrai mai. Tra i personaggi storici sono Napoleone, tra le birre la Du Demon, tra i Simpson non so. Non pensavo che Facebook potesse avere altre modalità d’uso. Invece.
Invece adesso sta caricando il VaffanKlub di Kravatta. La sua pagina, la sua bacheca.
Le sue foto. Ecco. Un clic. La spersonalizzazione del dolore. Incredibile, penso mentre le barrette verdi completano il download della pagina. Sto per scoprire le fattezze di un ragazzo di ventisei anni che non c’è più. Potrei scoprire d’aver bevuto con lui, d’averci parlato ad un presidio o, di sera, alla Mezzaluna o alla Pizzeria Europa. E non tremo. Il mio pensiero non vacilla, la mia volontà non si tradisce scomposta. Internet ha reso usuale la scoperta del macabro, del doloroso? Non lo so. So che non mi sento emozionato come dovrei essere, terrorizzato fino alle lacrime o alla pelle d’oca. Perché ho sempre frapposto una membrana tra il mondo reale e quello virtuale. Non ho mai preso sul serio queste schermate, questi pixel. Tutto quello che accade qui, su questo monitor, non può essere vero. Più vero del vero. Ancora un clic. Ancora un frame dal mondo parallelo, contenuto nella scatola. Con sospetta leggerezza ho scoperto il suo volto. Sorridente, strafottente, irriverente. Un ragazzone pieno di vita, come quasi tutti a quell’età. E non solo. Una galleria fotografica, sei o sette scatti. No, non lo conoscevo così bene. E, anche per questo, sento crescermi addosso un senso di vergogna che non riesco a spiegare lucidamente.

Domenica 2 novembre, Foggia-Arezzo 2-1

Lo striscione è ben visibile, anche dalla prospettiva alta della Sud. Nell’angolo in basso a destra, subito dietro la bandierina. Ciao Massimo. Come dire: buon viaggio, tu che ora sai quel che si prova. Un saluto banale, perché in una curva si sta in migliaia, pigiati e sconosciuti fino al gol, dove magari t’abbracci o ti spintoni. Ma gli amici restano quelli, restano gli stessi. Eppure l’esorcismo collettivo, lo sputo in faccia alla morte, è affare di gruppo. Tutti salutano, anche quelli che non conoscono il nome. Anche quelli che non sanno cosa sia successo, su quella stradina senza lampioni. È la curva intera a sentire l’obbligo collettivo di mandare un messaggio, di farsi carico della piccola banalità che spaventa. Perché i nomi sono tanti, di coloro che ci lasciano, che intraprendono il viaggio per l’ignoto. E a furia di ripeterli, sembrano perdere il valore dell’unicità. Proprio mentre lo acquisiscono. Agli occhi di una massa di estranei. Non lo nascondo, quando un giocatore dell’Arezzo ha battuto un angolo da quello spigolo, e gli occhi di tutti sono caduti su quel nome, su quel saluto, non ho potuto fare a meno di pensare agli incroci che la vita presenta. Ai suoi strani disegni pericolosi, ai suoi conti lasciati insoluti. E vi ho aggiunto un surplus sdolcinato: Meno male che esistono le curve. Ciao Massimo. Come a dire: lacio drom.
Poi il Foggia ha segnato con Del Core, che poteva andarsene all’uno contro uno. Il tempo di dirlo a Lello, che mi sta accanto, e di vedere Angelo che sta per mettere le mani addosso ad uno che sarà la seconda volta che mette piede in curva.
E lascio il settore. Non mi era mai capitato. Passare dinanzi agli steward, chiedere di uscire dallo stadio, piuttosto che di entrarvi. Supero i ragazzini che s’accalcano alle porte chiuse come i senza-terra ai finestroni dei monasteri, sguscio tra i passamano di ferro e, al rumore della porta che si richiude, m’assale un fischio alle orecchie. Il frastuono del vociare è alle spalle. Il catino, pure. L’effetto è inusuale, totalmente inedito. Fuori, nel silenzio. Dal caos al nulla domenicale in pochi secondi netti. Calo di pressione, bisogno di abituarsi. Costeggio il perimetro dello stadio. Il tempo di realizzare che non ho sigarette. Man mano che mi allontano dallo “Zaccheria”, la città sonnolenta mi avvolge. Tappeti ai balconi, bassi aperti, sole, oltre venti gradi in novembre. Piazza Ugo Foscolo. Le badanti a piazza Giordano. Una radio al Bar Esagono. La serie A è cominciata alle 15. Il viale della stazione. Un applauso in lontananza. Ci sono. Vedo la bara che sale a scatti le scale della chiesa. Rallento. Non mi va di inoltrarmi adesso nella ressa. C’è tanta gente, tanta. Sul marciapiede, su quello di fronte, lungo le pareti laterali della costruzione. Decine di facce conosciute. Decine di ragazzi che potevano essere al posto di Massimo, e lo sanno. Ci sono le colombe bianche nelle casse di legno. Voleranno al segnale. Nel frattempo si attende, si ricorda, si piange. Tanti occhiali neri a specchiare le lacrime. Tanta rabbia smozzicata in frasi casuali, dettate dall’istinto, dalla non accettazione di un’ingiustizia palese. È imbarazzante. È la prima volta che sono al funerale di un ragazzo che ricordo appena. Eppure mi sembrava importante esserci. Non so bene perché. I poliziotti, colleghi del papà di Massimo, si mischiano ai dreadlocks, ai pantaloni larghi dei writers. L’accostamento stride, ma la vita fa dei giri assurdi. Fanno il saluto militare, quando passa la bara. Gli amici si fanno coraggio l’un l’altro, i parenti sostengono la mamma. E poi la sorella più piccola, le cento sigarette del padre. Stasera in tanti ricorderanno episodi in cui Massimo figurava da protagonista. Rideranno e piangeranno al contempo, tanto che ogni risata sarà l’abbrivio d’un pianto irrefrenabile, irrazionalmente conseguenziale. Lo abbiamo già provato. L’elaborazione del lutto segue percorsi tortuosi.

Il Foggia ha vinto 2-1 in dieci. Lo scopro a casa. Ma, in realtà, lo sapevo.

1 commento:

Redazione ha detto...

"A morti de fameeeeeeee". L'urlo, la faccia stravolta, la testa fuori dal finestrino, la rabbia di aver perso, di essere stato povero di fronte a uno stadio ricco e generoso di emozioni, capace di ricordare e di sospingere, di ignorare un pugno di orafi destrorsi in trasferta col "2 fisso" garantito come la macchina figa regalata da mamma&papà per il diciottesimo compleanno. La circolare sta per passarmi davanti. La aspetto davanti al Cafè de Paris, dopo aver atteso invano che il monitor degli scommettitori mi facesse esultare per il pareggio dei Viola. Niente. Avevo fatto un fioretto. Stavolta, una sconfitta della Fiorentina va bene purché il Foggia batta l'opulenza della capolista. Sono stato esaudito. L'autobus arancione mi passa davanti. Dentro ci sono cinquanta aretini. Cinquanta al seguito dell'imbattuta in maglia amaranto. Uno di loro cerca di pareggiare a tempo ampiamente scaduto. "A morti de fameeeeee". Il tiro è una telefonata. Prevedibile. Scontato. Come il "mafiosi" urlato dai tifosi della libertas ai giocatori dell'Agrigento. E i napoletani "colerosi", i cagliaritani "pecorari". La fantasia si arrende di fronte all'insulto modello "quattrosaltinpadella". Pronto e sottovuoto. La mia gradinata è differente. Insulta con arte. Attinge al linguaggio medico-infermieristico-scientifico e tira in ballo divaricatori anali per la fortuna di certi rimpalli nemici. Mi fanno male le mascelle. La voce se n'è andata a urlare nelle orecchie di Mancino e Salgado e Del Core. Troianiello porta i difensori sul tagadà del rigurgito da fiato spezzato, con accelerazioni, stop e ripartenze fulminee da onda d'urto li dove il mare luccica e spira forte il vento. Dopo il Sorrento, anche l'Arezzo opulento lascia il passo, ipnotizzato da uno stadio dove a novembre è ancora estate e si sente profumo di vittoria. Uno stadio che ricorda le vittime di disastri e accidenti colpevoli e fatali allo stesso tempo. Nella città povera, rispettosa, si mischiano fragore e silenzio, odore di sugo e profumo d'incenso, fragranze di senso.

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