17/11/08

Il rigore e la grata

di Lobanowski 2

Domenica 16 novembre, Foggia-Benevento 1-1

La voce di Antonio Di Donna a Domenica Sport: “C’è uno striscione nuovo in Curva Sud, che magari può anche racchiudere il senso dello sport di qualcuno: Nothing else matters. Significa: Non importa nient’altro”. Lino Zingarelli, dallo studio, incalza: “Se possiamo inquadrarlo, Antonio”. E la telecamera punta in direzione della Sud, e stringe progressivamente verso lo stendardo. Dove l’avete messo?, chiedono Antonio e Giuseppe, rispettivamente da Bologna e da Firenze (dove non si prende Teleradioerre). Sulla grata in alto, rispondo. E al primo, che è un po’ che manca dallo “Zaccheria”, devo anche spiegare di cosa si tratta. Un’innovazione tecnica, una specie di cancellata alta sue metri e mezzo frutto della Sicurezza-mania degli ultimi mesi, installata lungo il quindicesimo gradone della parte superiore della curva (che, di conseguenza, risulta più stretta e sottile). A cosa serva è fittissimo mistero. Siamo al delirio, è il commento su Messenger. Certo che si. Quel che conta sul serio è che faccia freddo, finalmente. Non se ne poteva più di vivere in un luogo comune meridionale. Novembre fa il suo dovere, per la prima volta nella stagione. Freddo penetrante e terreno bagnato, pesante, verde cupo. Di fronte ci sono cinque-seicento beneventani. Un tempo c’era gemellaggio, ora il rapporto è declassato a semplice amicizia occasionale. Le squadre hanno finito la rifinitura e sono negli spogliatoi. Lo spicchio di Nord dove campeggiano i tre striscioni campani si muove in un ritmato battimano: Noi siamo Beneventani. La Sud, in silenzio fino a quel momento, si anima. Anche qui le mani vanno verso l’alto. Noi non siamo Napoletani. E battono all’unisono. A stabilire certe distanze che, sottovalutate, possono generare pericolosi equivoci.

All’ingresso delle formazioni sul terreno di gioco, il tifo è alto e possente. I campani rispondono, ma non c’è partita. È questione di numeri, più che altro. Dopo meno di 2 minuti, i giallorossi passano. C’è un cross, uno svarione della difesa, una mancata uscita di Bremec e un paio di giocatori avversari si dedicano a stabilire chi tra loro debba insaccare. Ho tutto il tempo, prima che la palla gonfi la rete, di staccare lo sguardo dal campo e fissare il settore ospiti. Saprò dal loro boato, che ritengo inevitabile, se i due gemelli Derrik hanno messo dentro la palla dell’uno a zero. Faccio sempre così. È una delle mie deformazioni da curva. Il silenzio ottuso sibila e annuncia l’esplosione di una parte. Hanno segnato. Un pensiero orrendo prende forma dentro di me. Mi giro istintivamente a controllare la pezza in alto. Immaginavo uno sfogo iconoclasta che, fortunatamente, non c’è stato. Non ancora. Ma la pezza non può esordire in casa – dopo sei vittorie consecutive – con la prima sconfitta stagionale. Sarebbe una sciagura. Siamo pur sempre nel balordo Sud della superstizione e dei riti magico-pagani ammantati di cristianesimo cattolico. Alziamo le mani. Ricominciamo a sostenere la squadra. Il Benevento si chiude, che neanche la nostra Dinamo a calcetto. Ad un certo punto sono in dieci dietro la linea della palla. Non riusciamo ad impensierirli. La tensione cresce. I cori non scendono d’intensità, mentre – per assurdo – sono i beneventani a farsi sentire di meno. Il gol non li ha caricati, li ha svuotati con una scarica d’adrenalina. Capita. Pecchia distribuisce palle in orizzontale, ma nessuno sfonda sulle fasce e non si fa movimento. Salgado è boa e quando riceve palla se ne sbarazza alla precaria ricerca di una velocizzazione impossibile. Sbattiamo contro un muro. E non c’è verso di bucarli su calci piazzati e azioni morte. Il primo tempo risulta lungo e tetro. Finisce con un sospiro prolungato e tanto nervosismo. Un anno fa finiva la breve vita di Gabriele Sandri. In uno squallido autogrill. Per mano di chi sappiamo. Abbiamo detto tutto quanto c’era da dire. Ci siamo svuotati di fluidi vitali per sezionare la verità ed imporla ai venditori di fumo. In questi giorni abbiamo ingoiato l’assoluzione dei vertici della polizia per l’ignobile, vigliacco agguato squadrista alla scuola Diaz di Genova, nei giorni del G8. L’ennesima prova della fragilità della nostra democrazia, dell’incapacità di percepirla. L’ennesimo frangente di storia italiana in cui le forze dell’ordine finiscono vezzeggiate e rabbonite. Come se non fossero strumento. Come se dalla loro predisposizione golpista dipendesse il futuro delle deboli istituzioni repubblicane. La Sud ricorda Gabbo e la lungaggine sospetta della “giustizia” italica. I beneventani applaudono. È tanto quello che il movimento è riuscito a fare fino ad oggi. Portare agli occhi dell’opinione pubblica una ricostruzione efficace degli eventi. Paradossale quanto vero. In questo Paese per ottenere un barlume di giustizia c’è quasi sempre bisogno di imbastire possenti campagne militari; di richiedere riparazioni di guerra. E non è detto che basti.

Nella ripresa assistiamo ad una riproposizione del già visto. La curva cede, di schianto. Brutto segnale. Cantano i soliti, si sgolano quelli che li seguono. Ma la marea dell’inizio è già un ricordo da consegnare alla storia. Neppure i corner conquistati defibrillano il settore, mentre i beneventani aumentano progressivamente il loro supporto. Sono una bella curva, senz’altro, anche se io resto indeciso se premiare loro o i potentini visti all’esordio. Poi giunge il rigore. Inesistente, ce ne accorgiamo in presa diretta. Eppure fa brodo. Dal dischetto va Salgado. Spero spiazzi il portiere. Guardo avanti, poi dietro, poi in alto. Alla fine m’apro un varco e vedo la palla finire a destra mentre il loro estremo vola a sinistra. Uno a uno. La curva torna a livelli d’assoluta importanza, ma ormai non conta più. Era prima che doveva cantare. Adesso che un cross dalla destra in attesa della deviazione vincente per poco non la fa venir giù, adesso è troppo tardi. Finisce uno a uno. Lo striscione è salvo.

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