13/11/08

La magia del trasfertista

di Lobanowski 2

Domenica 9 novembre, Perugia-Foggia 1-1

Lo zaino sulla spalla destra. Contenuto: 1 rotolo di nastro isolante, una busta gialla, la pezza. Nothing else matters. I due pacchetti di wafer li ho lasciati in macchina, appena in tempo sull’incipit delle formazioni gracchiate dall’altoparlante. Guido mi chiede se voglio l’ultimo sorso di vino. Rispondo di no e prendo il biglietto dalla tasca posteriore del jeans. Non li vediamo mai, non li vediamo mai, i primi dieci minuti, i primi dieci minuti, non li vediamo mai. La bandiera etiope nella sinistra. Un equilibrista. Ce la farò, penso avviandomi verso lo schieramento di 12 poliziotti che blocca il primo ingresso al settore. Guardo le facce, mi dirigo verso uno dalle guance pienotte. “Vediamo”, mi fa, indicandomi la bandiera. “Non entra”, aggiunge, mezzo secondo dopo. Avrebbe detto lo stesso di una scatola di cioccolatini o dei cuscini ricamati di mia madre. Sbuffo, pronto ad ingaggiare l’ennesima schermaglia verbale su regole che entrambi sappiamo di ignorare. Riprendo la bandiera e mostro l’asta, esile, incapace di ferire anima viva. La controlla di persona, la gira ad un collega, poi al comandante, perso dietro i copricapi dei suoi sottoposti. “E lì dentro che c’è?”. Mi porto avanti lo zaino senza perdere di vista la bandiera. Quello, il capo, l’ha srotolata e già si macera nei dubbi. So che sta per chiedermi cosa rappresenta il leone. Intanto estraggo la pezza. “Non entra”, fa il poliziotto, che ha tutta l’aria di uno che non ha detto altro da stamattina. Secondo sbuffo d’impazienza, una voce mi lambisce il timpano destro: “Che significa questo leone?”. Ecco. Un leone è un leone, faccio per dire. Giuseppe agguanta la pezza e, con l’aiuto di qualcuno, la apre. Un poliziotto nuovo interviene: “Che significa?”. Entrare in uno stadio, al giorno d’oggi, richiede una conoscenza ed una consapevolezza che, in altri tempi, in tempi d’oscurantismo, non era neppure ipotizzata. Oggi non entri se non sai esattamente il significato di tutto. E pure se lo sai, non è detto che entri. È un sintomo della crescita culturale del paese. One step beyond. Verso l’uomo in divisa con la bandiera tra le mani: “Insomma, mi vuoi dire che significa?”. Niente, gli faccio, è un simbolo. “Si, ma simbolo di cosa?”. Di niente, replico. “È il leone dell’Agip”, dice una voce dietro le guardie. E solo allora mi accorgo di un tipo conciato come uno che annualmente va a Predappio a commemorare la Marcia salutando romanamente ogni stipite di porta. Scuoto la testa. “E se non ha significato, scusa, ma che l’hai fatto a fare?”. La risata del fascista alla battuta del novello Bramieri in alta uniforme è fragorosa e solitaria, il suo atteggiamento è servile da far venire i crampi alla bocca dello stomaco. Riprendo l’esile asta della mia bandiera e mi sento afferrare dal gomito. Il poliziotto di prima mi spintona verso l’esterno: “Ti ho detto che non può entrare, forza, vai fuori”. Sono costretto a spiegare a costui che i suoi metodi sono inurbani quanto improduttivi. Ma proprio nel bel mezzo di questo interessante dibattito, è ancora il nostalgico ad intervenire: “Oh! Oh!”, fa preoccupato, “Queste cose no. Non diamo problemi, ci stanno trattando fin troppo bene”. Il servilismo è allo zenit. E poi, quel concetto: Fin troppo bene? Che vuol dire che ci stanno trattando fin troppo bene? Guardo Giuseppe che torna verso il bagagliaio della macchina e lascia cadere dentro il nostro striscione. Di lì a poco è seguito da Antonio, del plotone bolognese, che molla il suo galeone. Anche quello, per via del decreto Maroni, non ha ottenuto il benestare. Il poliziotto mi dice che già è tanto se posso entrare il mio leone. Dovrei dirgli pure grazie, magari leccargli il culo come il fascista in mimetica, farmelo amico per la prossima volta in Umbria. Attitudine alla sudditanza d’un popolo che non concepisce altra forma di governo se non il paternalismo. Tiro avanti senza rispondere, incrocio Jordan. Lo hanno spedito indietro a mollare lo zaino. E quando è tornato, senza zaino, non l’hanno riconosciuto. E gli hanno ripetuto tutti gli esami daccapo. Persino il metal-detector. Sembrava Massimo Troisi con quello del fiorino. Uno steward basso e giallo mi ferma prima della spianata interna: “Biglietto, documento, tutto”, dice. Sto per mandarlo a fanculo quando torna in sé: “Dai, puoi andare”. Anche lui convinto che gli debba dei ringraziamenti? Probabile. Vediamo l’ossatura metallica del settore. Sentiamo i primi cori alzarsi al cielo. Ma di salire non se ne parla. Ci sono i tornelli, prima. Giuseppe mi chiede di fotografarlo nell’atto di obliterare il tagliando Ticket-One. Clic. Conserverà il prezioso cimelio con la cura che merita. Ne sono certo.

I seggiolini grondano pioggia stagnante, il freddo penetra nelle scarpe. Ci siamo tutti. Siamo tanti, almeno seicento. Ci sentiamo chiamare: Daniele, Francesca e Antonio S. sono in alto. Hanno passato un paio di giorni in agriturismo, attratti dalla colazione abbondante che è quasi un pranzo. Siamo venti persone. Facciamo blocco. Scaldiamo la voce. Il Foggia è in maglia bianca, il Perugia ha una strana divisa da fine Settanta. Sulla nostra destra, una bandiera spagnola col toro. Inguardabile. Qualcuno si chiede: E quella? Perché è entrata? Ma non vogliamo far nostra la linea vittimista. È entrata, buon per loro. Anche se fa schifo solo a guardarla. La Nord è in silenzio. C’è un lutto, a quanto pare. Due striscioni ricordano un ragazzo che se n’è andato. La polizia ha fatto uno “strappo alla regola” permettendo l’esposizione del ricordo di stoffa. Grazie. Noi, Noi… Vogliamo… Questa… Vittoria. Dietro di noi un simpaticone dice Littoria. Ci voltiamo. È il classico caso di emigrante rimasto fermo al Me ne frego del Novantacinque, al cliché della curva di sinistra vs curva di destra. Un coretto: Comunista pezzo di merda intonato da due soggetti in alto è applaudito ironicamente. Quelli smettono. Quel filone non ottiene più il successo dei bei tempi. Dei bei tempi in cui si inneggiava ai Bei Tempi. Questa curva non è ipotecata. È di chi ha fiato e voce per sostenere, dall’inizio alla fine. In macchina, sulla via del ritorno, rifletteremo: ha più stile oggi, dopo dieci anni di C, che quando era in A. Condivido. Fatto sta che cantiamo. All’inizio di gran lena, sfruttando le scariche adrenaliniche dei nordisti al seguito. Poi, quando loro calano, il tifo si fa più moderato. Il Foggia attacca sotto la nostra porta. Salgado è ancora lento e senza grandi idee, ma sulle fasce si crea movimento. Il centrocampo regge bene e rilancia. Il Perugia, specie a sinistra, è in difficoltà. Ci annullano un gol che ci lascia gioire per una frazione di secondo. Le prime file cantano, il Perugia attacca. Sfiora tre volte il vantaggio: due lisci sotto porta e una parata di Bremec, su calcio d’angolo. Alla fine del primo tempo siamo giù, dall’uomo (nero) del Borghetti. Sono tutti concordi: è la migliore prestazione fuori casa dall’inizio della stagione. Per la prima volta penso al colpaccio. Cosa significa ritornare coi tre punti in tasca, l’ho dimenticato. Tornati a galla, riusciamo a seguire l’azione che ci porta sotto. Un sombrero al limite dell’area, una palla regalata, la respinta del portiere, il colpo a porta vuota. Seguono dieci minuti di confusione. In campo sembriamo spenti, sul punto di cedere. Nel settore i cori sono flebili e si sovrappongono, vanno fuori sincro. Il tempo di riorganizzare il tutto. L’eurogol in mezza rovesciata di Del Core. Si gioisce, cazzo. Ma l’opera è incompiuta. Andiamo, andiamo, andiamo a vincere. Rieccoci. Rieccomi, faccia a faccia con questo coro. Alto, altissimo, che non puoi non unirti. Solenne, sacerdotale, come allo “Zini”. Solo che lì durò quindici minuti d’intervallo. E segnò il mio destino. Salgado spara alto a porta vuota. Non vinciamo, ma ci crediamo fino alla fine. Triplice fischio. Soddisfatti. Ingabbiati fino alle 17. Tu non sai cosa ho fatto quel giorno quando io la incontrai…

Fuori è ingorgo. La polizia, abile a setacciare, a scartare, a proibire, si dimostra incapace di gestire il mare di macchine, furgoncini, pullman che s’incolonnano – nel frastuono – al cancello principale. Un mezzo blocca, per metà, la via d’uscita. Incrociamo la macchina del gruppo Bologna. Volevamo consumare, con la calma dei giusti, il nostro pasto domenicale nel parcheggio. Bucolicamente. Ma non è possibile. Allora ripieghiamo. “Ci vediamo a Gualdo”, urliamo. Quelli annuiscono. Gualdo, dopo la sosta dell’andata, è casa nostra, ormai. Ci sentiamo protetti dalla sua dimensione. I commenti di Tutto il calcio minuto per minuto lungo i tornanti, a tramonto inoltrato. Perugia sul cucuzzolo, bella e accogliente come ai tempi delle Olimpiadi d’Atene, quando con Ceska vi trascorremmo giorni affascinanti. Dal buio la rocca di Gualdo. La strada la conosciamo. In piazza si può parcheggiare. Solito bar. Il freddo è pungente, novembrino (finalmente) e consiglia il giubbino. C’è un arco, proprio di fronte il municipio. Lo attraversiamo. Dall’altra parte una scalinata e una piazzetta. Dei ragazzi, fuori da una pizzeria, ci guardano stupiti. Un signore chiede se, per caso, il Milan ha giocato nelle vicinanze. Forse a Bastia, in Uefa, rispondiamo. La pasta al forno è spettacolare, da applausi a scena aperta. La birra scioglie i commenti. È magnifico non avere scadenze, fretta, urgenza. Il passaggio di qualche Venere locale, un Borghetti a salutare la serata. Alle 19:20 tutti abbracciano tutti. La magia del trasfertista. Alla prossima, ci si dice. Che può essere Lanciano, che può essere Terni o Bratislava. Chi può dirlo. Nell’abitacolo abitato parte il Gioco Stolto dedicato a Fiorello La Guardia, svago per senza meta senza alternativa: da questo momento controlleremo il contachilometri ogni mezz’ora e stabiliremo una tratta vincente. A San Benedetto salutiamo il sesto. Lecce-Milan su Radiouno, la serata sulle colline ai lati dell’autostrada. A Termoli tocchiamo i 63 chilometri percorsi in 30 minuti netti. Celebriamo il vincitore con un sentito applauso. Al casello rasentiamo la mezzanotte. Il tempo di mollare i bagagli e benedirci l’un l’altro. Alla prossima. Ed assistere al prodigio del counter che si resetta sotto i nostri occhi: 000km. Ergo: altri mille chilometri a fondo cassa. Che, stavolta, sono valsi un punto.

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