24/11/08

Il nostro Erasmo

di Lobanowski 2

Antefatto: Taranto, sabato 22 novembre

La notte disegna i piani alti della periferia urbana.
Una periferia implicita, compresa nel prezzo, programmata per combaciare con l’idea che noi abbiamo plasmato sul luogo comune, che non sapremmo dire così, su due piedi, quando è cominciata. O perché. Quel che conosciamo sul serio di questo luogo – che sa di cemento e asfalto – è tutto fuori dal finestrino: un susseguirsi ossequioso di rettilinei e vasti incroci, di segnaletica fitta e rondò da costeggiare. Fino a perdersi. Fino all’inversione di marcia. La nostra guida locale si muove con disinvoltura, lo sterzo ondeggia senza scossoni dell’ultimora, senza vibrazioni di ripiego, da strada sbagliata. Dietro, le due auto dei nostri non sembrano arrancare. Poca gente in giro a quest’ora. Si fila via lisci tra blocchi di caseggiati anonimi, alti dieci e più piani, coi balconi stretti come alveari e le parabole che spuntano tra i fili dei panni ad asciugare. Si svolta a sinistra, lasciando l’offuscata luna dall’altra parte dell’abitacolo. Il freddo secco accompagna l’attrito dei pneumatici sulla carreggiata. Ancora alveari, dritto per dritto. Nessun albero particolarmente vivace. Una svolta a destra, una a sinistra. Un clacson fende l’aria col suo suono acuto. Non mi volto nemmeno, so che è Giuseppe. È così che ci comunica che siamo arrivati. Che ci siamo. Ore 00:50. La voce inudibile di un invisibile cicerone: Signore e signori, sulla vostra destra potete ammirare lo stadio “Erasmo Jacovone” di Taranto. Altro colpo di clacson. Alto, sembra anche più dello “Zaccheria”, incapsulato in una specie di guscio, di chiglia da crostaceo, da animale dei fondali. O, piuttosto, da mezzo anfibio dell’arsenale militare. Un torpediniere incagliato nel cuore del gelo suburbano. E cuore a sua volta, pulsante. Vediamo per prima la Sud, il settore ospiti lassù in alto. Sfiliamo in carovana sotto la tribuna, che non è rigidamente separata dal resto del molosso, come di solito avviene negli stadi non circolari. Qui a Taranto è la gradinata a vivere questo sospeso privilegio dell’isolamento simulato. Un pensiero fugace: basterebbe un attimo, un minimo di attenzione e di sangue freddo per lasciare una scritta sul muro. Nera su bianco: 23 novembre 2008: Assenti presenti. E già. Perché oggi c’è il derby, ma lo “Jacovone” è chiuso, proibito, vietato. Non è a norma, dicono. Di sicuro, noi non ci saremmo entrati lo stesso: Taranto non è Foligno, qui il divieto di trasferta sarebbe scattato senza nemmeno darci il tempo di fiatare proteste. Ma sapere che neppure i tarantini potranno valicare le soglie della recinzione in costruzione, crea un certo pathos estraniante. L’idea della scritta è sciocca e vola via senza darci pena. Solo, vorremmo comunicare, eternare/esternare questo momento. Dire ai cugini che ci siamo – oggi e qui – e che sarebbe stato bello poter esserci con tutti i crismi. Le macchine svoltano a destra, passiamo sotto la Nord con le inferriate rossoblu. “Quella è la statua del nostro Erasmo”, dice la guida. Io non ho visto niente, mi giro di scatto. Lello fa lo stesso. Vedo una sagoma nero-bronzea. Un basamento. Poco di più. Lo sguardo inquadra una cittadella in lontananza. La curiosità si fa domanda. Cos’è? Niente, fa quello, altre case della Salinella. Case, a grappoli, alte come castelli medioevali, fitte come reti da pesca. Di finestre, finestrelle, squarci. Come brecce. E scarse luci. Una sola, forse, ad illuminare di giallo l’effetto d’insieme – che sa di fortezza – come certi monumenti. Imponente e tetro. Case-caserme, come ce ne sono in ogni periferia, costruite senza la minima concezione di vivibilità. Senza il cruccio di renderle abitabili. Degne, degnissime case di quel proletariato che qui è operaio più che altrove. Più che a Genova. Una rampa, la bocciofila, nessun chiosco. L’idea del plusvalore. La notte e l’asfalto, lo stadio dietro al torcicollo, in dissolvenza. Viale Magna Grecia, la Con-cattedrale di Giò Ponti. Un veliero, dovrebbe essere. Ma le intenzioni non vanno quasi mai d’accordo con le applicazioni. I saluti e gli arrivederci, le strade che tornano a dividersi. Dobbiamo seguire le indicazioni per Bari che troveremo di lì a poco, ci dice l’amico. E in men che non si dica siamo fuori da Taranto. Più che altro, è Taranto a finire fuori dai finestrini. Ad evaporare, quasi. Senza darsi la pena di avvisare.

Domenica 23 novembre, Taranto-Foggia 2-2

La frase Ognuno porti qualcosa applicata al campo mistico del pranzo nasconde sempre delle insidie. È una specie di ascia bipenne. Può risultare vincente, o trasformarsi in un clamoroso fallimento. Dipende dal grado di organizzazione che la sottende. E dalla pressione sociale che accompagna il grado di organizzazione. All’ora di pranzo lo stomaco è quello di un cavallo al galoppo sulla steppa. Ho tre appuntamenti da rispettare. Potrebbe essere un buon segno. Francesco Il filosofo è sotto casa alle 13. Ha una vistosa busta in mano, una busta che senz’altro nasconde una pirofila. Bene. Da Ceska non c’è sorpresa: contavamo sulla parmigiana, e parmigiana è stata. A casa di Gianni, invece, nel cuore di Borgo Croci, ritiriamo Tonino. E una teglia di pasta al forno. Non rimarremo a digiuno, nonostante il numero. Sentiamo molto la partita. Lo dimostrano il numero di cuochi. E la quantità dei piatti. Sulla serranda di destra, quella più larga, lasciata lì dai tempi del comodato d’uso e perennemente inutilizzata, si appende lo stendardo. Nothing else matters. Dentro c’è il pubblico delle grandi occasioni. Il tavolo rosso è aperto sulla parete di fondo, a mo’ di buffet. Giocolieri smistano piatti di plastica come neanche Pecchia a centrocampo. Il filosofo si occupa del vino. Pizza di patate, doppia pasta al forno, salsicce. E i peperoni ripieni di Isabella. Sentiamo molto la partita. ContoTv ha cominciato la diretta dallo “Jacovone” già da un’ora. Flora Baldi, che sta molto meglio senza quei quintali di trucco da tg delle 20:30, intervista l’allenatore del Taranto. Noi cominciamo a mangiare. Altri amici ci raggiungono, quelli che hanno pranzato. La strada, a parte noi, è silenziosa. Domenicale. Scarpetta nel sugo delle melanzane. Prima Diana della giornata, accesa con una certa malcelata paura. Ieri sera, a Taranto, abbiamo respirato la stessa aria che per i neonati corrisponde a 90 sigarette. Un pensiero ai sicari legali, autorizzati, assistiti e osannati per lo spirito d’intrapresa. Uno sguardo all’orologio, uno alla tv. Ancora interviste del prepartita: ma che cazzo ci sarà da dire? Di sicuro qualcuno che affermi che i derby sono partite a parte lo si trova. Lo stadio vuoto mette tristezza. Il calcio non è attività scindibile dal contorno. Anzi, è il contorno che fa l’attività. La macchinetta del caffè è ferma per austerity da un po’ di mesi. Si passa al Borghetti per stagflazione. E così, col bicchierino in mano, le squadre entrano in campo. Gianni arriva con addosso ancora gli abiti della fatica: sembra quello della pubblicità della Nutella, quello che fa da mangiare agli azzurri, ai campioni del mondo. La fiducia è illimitata. I talecronisti sono pessimi: spenti, senza voglia di fare, senza capacità di coinvolgere. Proviamo a sostituirli con la voce di Di Donna dalla radio, ma arriva con qualche secondo d’anticipo rispetto alle immagini, che rimbalzano sui satelliti lunari. Ed allora niente. Ci teniamo questi due. In campo sembra la giornata buona, anche se continuiamo ad usare una sola fascia. Giungiamo al tiro più spesso. S’alzano cori etilici. In tribuna ci sono gli accreditati. Da noi, i diffidati si alzano per andare a firmare. Troianello ubriaca in dribbling l’ultimo difensore, ma il portiere alza il suo tiro sul primo palo. Sembra la giornata buona per la tanto attesa vittoria esterna. Ma un cross basso, al minuto 45, rompe l’incantesimo. Il Taranto passa. Giuseppe, da portiere, si scaglia sull’amato Bremec: in area piccola è buona creanza uscire. Ma tant’è. Perdiamo 1-0. Altro giro al bar, altre sigarette apprensive. Nella ripresa il Taranto rischia seriamente di chiudere la partita, ma non ce la fa. Ma continuiamo a crederci. Angelo pronostica un 3-1 per noi, mentre il resto della stanza macarena E se Mattia sta zitto, E se Mattia sta zitto, il Foggia pareggia. Entra Germinale. Mattia pronostica che non si capirà più un cazzo. Germinale segna. È il pareggio tanto atteso. Adesso bisogna infrangere il tabù. I diffidati vanno a firmare di nuovo. Vitaccia. Qualcuno ci spieghi come avrebbero potuto raggiungere Taranto in meno di un’ora. Misteri della burocrazia. Rimaniamo in dieci per un fallo inesistente. Non ci voleva. Piotrek distribuisce caffè e paste del Cocozza. Al minuto 84 il Taranto passa. Un cross senza pretese, un uomo solo sul vertice destro dell’area piccola. Sembra finita. Gli accreditati sugli spalti accompagnano con gli Olé i passaggi dei tarantini. In dieci contro undici e sotto di un gol. Con il solo recupero da giocare. Cinque minuti. Che diventano in fretta un mesto conto alla rovescia: 4,3,2,1. Non succede niente, se non che guadagnamo rimesse laterali sempre più profonde. Come nel rugby. Era una partita da vincere e la stiamo perdendo. La rimessa al minuto 95 è lunga, va dritta in area. Qualcuno in maglia bianca spizza all’indietro, Germinale colpisce di testa e la palla s’alza in una parabola carica di speranze. Investita da una strana forza inversa, man mano che la palla s’abbassa, la stanza si alza, con le mani in alto in attesa del segno del destino. Che arriva. Ed il boato che ne consegue diventa secondo. Secondo solo a quello seguito al gol di Grosso ai crucchi. È il pari, è una goduria. Vissuta mediaticamente, ma comunque vissuta. Al meglio. Certo, esserci sarebbe stata un’altra cosa. Ma dobbiamo accontentarci. Per problemi strutturali.

Appendice: il barista

Il barista del Cocozza giunge poco dopo: Peccato per la sconfitta, esordisce. Quale sconfitta?, facciamo noi. Il Foggia, ribatte secco, abbiamo perso 2-1, no? No, abbiamo pareggiato. Il barista è foggiano e il foggiano è sospettoso, di natura. Non si abbandona alla gioia, non la esterna, per paura che altri foggiani siano lì pronti a ridere di lui. Della sua ingenuità, della sua scoordinata felicità d’occasione. Al barista viene da sorridere, ma vuole conferma, sospetta il complotto ai suoi danni. Una specie di crudele contrappasso alla nostra delusione, un gioco cinico. Chiede fuori, s’affaccia e chiede dentro, interpella dalle quindici alle venti persone. Ma si ostina a non abbandonarsi al tripudio. Allora Vincenzo taglia la testa al toro: “Facciamo così – gli fa – se il Foggia ha pareggiato, ci offri un pasticcino a testa”. Quello si guarda attorno, mentalmente ci conta. Poi si volta. E fugge via. Felice. Vincenzo non può che commentare: “Mi è scappato sul pasticcino”.

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