28/06/08

Forlì, fine estate

di Lobanowski 2
Dalila Di Lazzaro, aggressività esplicita, colore sbrigativo. Oh, Serafina!, film del 1976. La tragicomica vicenda di un industriale lombardo che trova l’amore in manicomio. L’industriale lo fa Pozzetto. L’amore la Di Lazzaro, che in effetti piace, piace molto. Allusioni erotiche e nudi plastici. Rete 4, cinque meno un quarto di un mattino d’agosto. Poco caldo, il sole deve ancora cominciare a bruciare, a scottare. I tg devono ancora orientare i barometri per stilare le classifiche delle città-fornaci: Foggia ci sarà, c’è sempre, con Alghero. C’è da scommetterci. Il cielo è grigiastro. Il nove posti ancora non arriva. Il televisore all’interno del club di via della Repubblica continua a mostrare le grazie di Dalila. Non so perché ho scelto di esserci, in questa inutilissima prima trasferta di Coppa. Forse per amore, forse per smania. Con qualche propensione in più per la seconda. È la smania di ricominciare, di suonare il requiem alla stagione estiva, che mi ha spinto ad accettare l’invito di zio Franco. Lui, a Forlì, vuole esserci. È in ferie, ci sono tutti i suoi amici, ha trovato i posti sul furgone. Per lui tagliare l’Italia a/r, stavolta, è un po’ come spaparanzarsi al sole sulla riviera: un’appendice del meritato riposo. Io sono curioso di viverla questa anomalia. La formula della Coppa Italia, quest’anno, prevede lo scontro singolo, mortale, all’ultimo sangue. Non più la tranquillizzante doppia gara, ma una sfida senza replica. In casa della peggio classificata. Tabellone d’agosto con le grandi e le semigrandi dispensate. Noi siamo appena scesi dalla serie A. Stiamo per addentrarci in quello che riteniamo essere un anno di transizione. Abbiamo una squadra di tutto rispetto, possiamo puntare alla risalita. Sedicesimi di finale: la Reggiana va a Trapani, il Genoa a Gualdo Tadino, il Brescia a Fiorenzuola, il Palermo ad Acireale. L’arrivo del furgone è fragoroso. Prime polemiche sul ritardo. Breve conteggio dei presenti. Troppi, siamo troppi. L’alba è già più di una possibilità e poi ormai sono sveglio. C’è bisogno di qualcuno che metta a giro la macchina, che solo col nove posti è impossibile, anche stringendosi. Breve sondaggio e la macchina vien fuori. È di uno che in curva aveva fama di fare gli striscioni. Altra attesa. Salgo sul furgone. Si parte. Sul mezzo imperversano i Pooh: Chi fermerà la musica? A Pescara faccio cambio: vado in macchina. Siamo in quattro, c’è anche un ragazzino. Si parla – si straparla – di politica. Di fortuna che ha vinto quello che se vinceva quell’altro già mi ero preparato a trovarmi i carri armati sovietici per le strade, come in Ungheria. Avanspettacolo puro: Ohi, giovani, ma l’altro chi sarebbe Occhetto? Ma sapete che l’Urss non esiste più da qualche anno, si? Non si fidano, rimangono scettici. Da un momento all’altro l’Unione si ricompatterà e, su ammiccante invito dei Progressisti al 34,3%, invierà i suoi mezzi anfibi ad oltrepassare la Venezia-Giulia. Sorrido, ma non sono il solo. Guardo fuori dal finestrino. È un attimo. Il tempo di intuire. Un botto soffuso, soffocato, come l’esplosione di una camera d’aria. E la macchina impazzisce. Siamo a 110-120 kmh e vedo il mezzo puntare col muso prima destra, poi a sinistra, metafora perfetta del trasformismo. Il pilota è bravo, asseconda l’impeto del motore al galoppo senza frenare, senza provocare scossoni. Eppure, per centinaia di metri, l’auto è uno strumento nella mani del destino. Ho il tempo di riflettere, di quelle riflessioni condizionate ed incontrollabili: potrei morire, qui ed ora. All’altezza di qualche paesello delle felici Marche, al seguito del Foggia calcio e della sua prima esperienza ufficiale nella stagione ‘95/96. Morire alla volta di Forlì. Assurdo, inconcepibile. Vedo il furgone che ci precede rallentare, improvvisamente cosciente di quel che è successo. O sta per succedere. Piano piano l’auto rallenta, si ferma. Siamo ancora vivi. Il furgone si inchioda. Si aprono i portelloni. Emilio torna in galera scende, nel bel mezzo di una corsia d’autostrada. E ci viene incontro. Quello degli striscioni, al volante, s’accascia sfinito per lo sforzo psico-fisico. È andata bene. Potremo raccontarlo.
Al casello di Cesena dilagano leggende. Pare che i tifosi del Forlì siano caldi e turbolenti. Si narra che possano vantare oltre duecento diffidati, tutti raggranellati nel derby. Proprio col Cesena.
Il gruppo si divide. Una parte della comitiva ci lascia, ci raggiungerà a sera. I reduci sfidano a petto largo l’afa di una città terrificante e vuota. Un bar in centro, una Polar. Un gruppo di giovanotti passa e dice qualcosa. Ne scaturisce un accenno di parapiglia. Ma sono solo militari che attendono lo scaglione successivo, nonni che ci hanno scambiato per matricole. A guardarci non si direbbe, ma di facce nuove a Forlì devono girarne poche. Una arzilla signorina di cinquantacinque-sessant’anni cerca di adescare i giovanotti seduti fuori. Un vago senso di nausea mi si attorciglia alla bocca dello stomaco. Preferisco andare a fare due passi. Come me, diversi altri esponenti del gruppo.
La stazione, i palazzi, le piazze quadrate. Non sarebbe neanche male, razionalista com’è. Ma è estate, è spopolata, è noiosa. Meglio limitare al minimo il turismo. Dinanzi allo stadio è quasi sera. Ci sono altri foggiani. Il biglietto è giallo e verde, ricorda l’etichetta di una bottiglia di vino. Il mio è il numero 3.013. Ho forti dubbi che la cifra sia stata resettata molti anni prima. Incontro Fiorenzo. Non sapevo gli interessasse il calcio. Difatti. Lui e quattro suoi amici hanno pensato bene di allungare da Rimini, dove sono in vacanza. Il settore è uno spicchio di tribuna. Il Foggia, agli ordini di Delio Rossi, sta facendo riscaldamento proprio sotto di noi. Un elemento dei nostri si stacca dal plotone per avvicinarsi il più possibile alla squadra. E gridare: “Delio! Lui non deve toccare palla!”. E col dito accusatore indica Cappellini, che alza lo sguardo e allarga le braccia, sconsolato, con un’espressione del volto eloquente. Come a dire: Ma questi non si scordano mai di niente... Pensava di farla franca, Cappellini, l’esecutore materiale di innumerevoli strafalcioni offensivi, l’anno prima. Invece c’è un coro di: “No!” che dalla tribunetta accompagna il torello della squadra. “Delio, se quello tocca palla scendo”. Il resto della rosa ride e prosegue. Ma nessuno passa la palla a Cappellini. Le minacce restano minacce.
“Ma questo non è un campo di calcio – si fa serio qualcuno – questo serve per le bici”. Ed indica la pista inclinata, modello velodromo: come a Pesaro, a L’Aquila, a Lanciano. I novanta minuti diranno uno a zero per loro, con gol di un certo Orlandi. Al ritorno non esplode nessun pneumatico. Ma, in compenso, passiamo qualche ora in commissariato, all’altezza di San Benedetto. Cercano dei razziatori di autogrill. Con affetto e ammirazione ricorderò sempre quel carabiniere che, alla ricerca di un salamino, svitò il radiatore. Emilio lo guardò stupefatto, poi chiese: “Dici che l’abbiamo messo a bagnomaria?”.

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