20/06/08

Povera Stella

di Lobanowski 2
Nicola è tornato da Lubiana con una busta carica di regali. Una cartolina della Zastava 750, una biografia di Josif Broz in sloveno, un berretto del IX Korpus, una spilla. E due tazze. “Non ho capito bene per quale delle due tifate, così le ho prese entrambe”. Sul tavolo in bella mostra il bianconero e il biancorosso. Il Partizan e la Stella Rossa, fianco a fianco. L’evidenza di una contraddizione, il crescente peso dell’indecisione: è vero, come avrebbe potuto capire? Non siamo mai stati chiari al riguardo, non emettiamo comunicati stampa ufficiali da tempo, in merito. Stella Rossa e Partizan. I poli inconciliabili. È tempo di prendere una decisione.

Ma come si fa? Io non sono nato a Belgrado. Fossi nato lì ci sarebbero stati i tortuosi percorsi dell’insondabile a decidere per me. Sarei stato dell’una o dell’altra senza un motivo reale. Lo sarei stato e basta. Per quel processo carsico e alchemico che plasma il tifoso. Ogni tifoso. La mia squadra di calcio a sette si chiama Partizan, mio collettivo politico ha come simbolo il simbolo del Partizan. Eppure io mi sento propendere per l’altra Belgrado, quella (ahimè) biancorossa. Dagli ultimi Ottanta del furto-Milan, con la Red Star in vantaggio di un gol, i berlusconiani virtualmente eliminati, e la partita sospesa per nebbia; alla squadra che lottò e perse con la Samp della Champions. Per la squadra di Belodedici, Jugovic, Mihajlovic, Prosinecki, Savicevic, Lukic, Pancev che a Bari si laureò Campione d’Europa. Per la bolgia del “Marakana”. Per il Crvena Zvezda.

Il primo a dirmelo è stato Angelo. Un colpo basso: “Sai chi sarà il prossimo allenatore della Stella Rossa?”. So per esperienza che quando uno mi fa una domanda con quel tono, la risposta è invariabilmente o Casillo o Zeman. E siccome Casillo non allena (non ancora) ho sentito il bisogno di sedermi e di correggermi una Peroni con un cicchetto di gin. E non certo per festeggiare. Ma come, santo iddio, non l’avevamo lasciato che voleva “fare calcio” alla Cisco Roma?, chiedo rabbioso al terzo Lobanowski. Annuisce sconsolato, ma neanche lui sa darmi una risposta. Il tempo di immaginare un altro Fenerbahce, un altro Napoli, un’altra linea difensiva che scatta all’unisono verso il centrocampo come l’Armée napoleonica, mentre gli inglesi, i russi e i prussiani aggirano con sistematicità il fuorigioco.

Una scarica di tensione acquea. Poi Loba3 se la canta: c’è un’intervista al boemo sulla Gazzetta. “Vai a leggerla”. Tremo al sol pensiero. Scovo, leggo. E, parola dopo parola, concetto dopo concetto, l’intera filosofia zemaniana finisce stesa sull’erba, come una tovaglia da pic-nic: il “ribelle” contro le plusvalenze e le farmacie sostiene che il sistema gli ha impedito di vincere, rubandogli dieci anni della sua vita. Ne parla con la stessa insistenza vacua di certi maoisti di ferro, di quelli che credono che nulla accada per caso e che se un terremoto devasta la Cina a pochi mesi dalle Olimpiadi la colpa è da ricercare nel frullo d’ali della Cia in Paraguay. Il sistema. Inarrivabile e senza perimetro, altrove d’ogni condizione fisica. L’alibi di chi non ha più un presente e trova comodo giocare con il ruolo dell’eroe sacrificato sugli altari del profitto (altrui).Ma c’è di più, c’è di peggio. C’è che quando chiedono allo stoico quale è stata la sua squadra più forte mai allenata, risponde: il Licata, “che giocava a occhi chiusi”, la Lazio e la Roma, che hanno fatto divertire. Strabuzzo gli occhi, investito da una scarica di adrenalina. Positive vibration. Sorrido. E il sorriso che mi si stampa in faccia è quello di uno stronzo: Zemàn, l’osannato Zemàn, il venerato Zemàn, nume tutelare della foggianità, sogno ed emblema di un’epoca che portò alla giornalistica trasformazione finanche del nome dell’antica Arpi, semidio del Rosati e del Ginnetto, patrono di San Guglielmo e Pellegrino, della Piana delle Fosse, di Candelaro e Borgo Croci, re taumaturgo del Cep, di Segezia, del Martucci e del Diaz, sovrano paterno e indiscusso dei corsi Giannone, Matteotti e Roma... per Foggia... per la sua Foggia... non spende neppure una parola! Licata e Roma. Oh, Deo gratias!

Chi è l’ingrato? Perenne dibattito aperto: il pubblico che ha assistito, ha pagato e pregato, o l’asso che tutto ha pigliato e tutto ha dimenticato? È Zeman un professionista cinico e disincantato o un semplice senza cuore frettoloso di staccarsi dalla pelle il trasferibile della sua impresa più leggendaria: Zemanlandia, per l’appunto? E soprattutto: perché Renzo Arbone, che pure dice d’essere foggiano ad ogni occasione buona, è trattato da traditore della patria mentre quest’uomo possiede più edicole votive in città di quante ne possa vantare la Madonna dei sette veli?
Che questi fedeli in perpetua processione possano aprire gli occhi. Così come quelli della Stella Rossa, ahiloro, faranno presto.

6 commenti:

Anonimo ha detto...

Credo che Zeman abbia citato le esperienze ritenute migliori dal punto di vista dei risultati concreti. Anche lui ha il complesso del bello che non balla ed è consapevole di aver raccolto quasi nulla che fosse degno di essere annoverato come vittoria. Il suo Foggia non arrivò mai in Europa. Era un fuoco d'artificio. E da queste parti amiamo i fuochi d'artificio, li amiamo perché sono effimeri, il sogno luminoso e luccicante che infuoca la notte, ci riempie gli occhi di bagliori, deflagrazioni ritmiche e rumorose, scie di splendore che si perdono in uno o pochi attimi. L'amore per Zeman, secondo me, ha questa spiegazione. In una terra di sudore, sete, braccianti, cose concrete come le mani segnate e la schiena curva di mia nonna in mezzo ai campi, in molti apprezzano qualcosa che va al di là della concretezza, dello strettamente necessario, della dura consapevolezza che ogni cosa vada conquistata centimetro per centimetro, con sofferenza. Quel Foggia sembrava avesse le ali. Codispoti sembrava viaggiare alla velocità della luce. Baiano-Rambaudi e Signori facevano venire i sudori freddi a Zenga. Padalino sbeffeggiava Van Basten uscendo palla al piede. Era una soddisfazione. Una pura soddisfazione. Non importa se supportata o meno dal risultato. Van Basten si vendicava alzando le braccia al cielo dopo un 8-2. Zenga e l'Inter a fine campionato doppiavano i rossoneri in classifica. Ma il Foggia li aveva costretti ad arrancare. Aveva offeso per primo. Menato lo schiaffetto di sfida dietro al cozzetto di Gullit. L'adesione al mito zemaniano è il sogno irrazionale di vincere cantando, senza portare la croce.

Quita

Anonimo ha detto...

"Non importa se supportata o meno dal risultato".

Oddio, quanto non sopporto sta frase...

Lob2

Anonimo ha detto...

Lob1

Un tifoso è un tifoso. Un tifoso si diverte se vince. Io mi diverto se vinco. Come, non mi frega. Come dice Van Persie, "io volio vincere anche se goco a ping pong". Figuriamoci se la msasima non debba essere architrave nell'approccio ad una cosa serissima come la passione calcistica. Per divertirsi c'è sempre Zelig (a chi piace) o il circo (a chi piace). Io odio entrabi. Se qualcuno mi dice che si è divertito a vedere le nostre maglie umiliate 8 a 2 dal Milan, che lo dica apertamente. E poi mi dia un appuntamento, che sono pronto a menarlo.

Anonimo ha detto...

Io mi sono divertito con quel Foggia. E pure molto. Il titolo del vostro bel libro, del resto, per il Corriere dello Sport aveva un significato preciso: ovunque vadano, i Satanelli riempiono lo stadio, ricevono applausi, giocano bene e, qualche volta, vincono. Come successe a Firenze, con tutto lo stadio ad applaudire gli avversari dopo una partita in cui i padroni di casa uscivano sconfitti. Loro, i fiorentini, si erano divertiti e avevano...perso. Io, a Zeman, preferisco allenatori più duttili, senza dogmi. Il senso del mio intervento non sta, quindi, nella difesa del Boemo (quasi una contraddizioni in termini), ma nella constatazione del perché a lui riusciva di ricevere applausi anche dopo una sciagurata sconfitta per 3-4 in casa. Cose folli, piene dei bagliori della follia e dell'effimero. Fuochi d'artificio, appunto.

Quita

Anonimo ha detto...

Smitizziamo.
Il titolo del libro è un chiaro esempio di esagerazione "meridionalista" del Corriere. Si era alla terza giornata. Era la prima vittoria del Foggia, che si apprestava a diventare squadra-simpatia.
Come era già accaduto col Pescara di Galeone, che aveva vinto a Milano con l'Inter qualche tempo prima.

I tifosi della Fiorentina applaudirono, certo. Come i foggiani subissarono d'applausi il Licata che aveva vinto 1-0 allo "Zaccheria". Sportività? Reale apprezzamento?
Direi: forma neanche tanto larvata di contestazione ai propri, più che lode agli altri.

Comunque: io non mi sono divertito affatto. Non mi diverto a perdere. Mai.

Lob2

NicKappa25 ha detto...

A distanza di un anno e anche più leggo le parole di Quita e concordo.

Quella squadra era un'evasione da Foggia e dalla foggianità...era troppo anche per noi. E infatti, come si dice, il troppo storpia.

Il Libro