18/06/08

La fatal Cremona

di Lobanowski 2

Dalle nozze a Pizzighettone

Mia sorella ha pronunciato il fatidico si in un sabato mattina assolato di promesse. La Lancia Lybra ha imboccato la A14 che gli invitati al suo giorno più bello avevano da poco liberato il giardino della sala ricevimenti. Il trenino aveva smesso di raccogliere i timidi ai tavoli. A-e-i-o-u-ipselon. Verso Nord. Con la speranza che non si confessa, con la carica che si maschera nelle macumbe dell’esorcismo collettivo. Finisce in pareggio, sicuro. E noi? Noi dobbiamo esserci, abbiamo il dovere di crederci. Ma anche di non illuderci: è dura, incredibilmente dura. La mezzeria bianca ipnotizza. Fantasmi che vagano nella notte adriatica. Geografia della percezione, la musica che cambia: Moby si presenta in punta di lancia. All’autogrill ci ricongiugiamo col resto del gruppo, ci guardiamo negli occhi. Mondonico ci accredita ancora del 50% di possibilità. Fa pretattica, la sa lunga. Allo “Zaccheria” ha serrato i ranghi, ha strappato un pari senza reti coi polmoni e i piedi buoni dei suoi centrocampisti in sostegno. Ora, quella porta inviolata è un filo che ci trasporta come ragni da una parte all’altra dell’Italia. In carovana. A Vasto spunta il sole. Un sole ancora notturno, ma il mare rischiarato concilia i pensieri. Se vinciamo siamo in finale, se perdiamo è il caos. Apro i finestrini, respiro a fondo, scaccio il nerofumo. A Rimini vediamo la via Emilia, in radio gli Arpioni battono in levare. Il sonno è definitamente riposto. Andiamo, andiamo, andiamo a vincere. Il cielo mostra il suo lato B: c’è nebbia, ma quella ce l’aspettavamo, un freddo umido trasuda nelle ossa, quasi piove. Tutt’intorno è più buio adesso, alle otto del mattino, che a Civitanova. Incontriamo i bolognesi che emigrano verso Mantova, a giocarsi la A. La tensione morde la bocca dello stomaco. Noi siamo il Foggia, abbiamo dei conti da saldare col passato. Rivaldo è un ectoplasma da ridurre al silenzio. Tanto più che oggi l’Avellino avrà la certezza della retrocessione, lo sappiamo. Sarebbe il massimo. Radiorai gracchia del tappone dolomitico del Giro. Noi viriamo a Fiorenzuola. Direzione Brescia. Il Po, Piacenza barrato. La campagna è una trapunta bagnata. La foschia è densa. Qualche campanile agli angoli del disegno. Cremona. Le bicliclette della sonnolenta provincia lombarda, i segnali stradali ad indicarci il settore ospiti. C’è già gente, siamo già più di loro. Loro, che a braccia conserte e in atteggiamento di sfida, attendono i foggiani del Nord ai botteghini della Sud, la loro curva ricoperta da murales. Sanno di giocare in trasferta, lo temono e fanno i duri. Tentano di allontanare le cattive suggestioni: dicono che non saliranno più di quattrocento foggiani, dalla Puglia. Ma ignorano un dato fondamentale: non siamo come loro. Tra noi e i grigiorossi c’è un approccio grande quanto un podere. Noi non meritiamo la C, loro si. In questa affermazione ingiusta e parziale brilla la verità oggettiva delle cose, inutile girarci attorno. Una coppia di cremonesi monta il chiosco dei panini. Un pezzo del gruppo è novanta chilometri indietro, alle prese con una gomma da ovalizzare. Andare in giro per Cremona sembra un atto di scortesia. Puntiamo a nord-ovest, verso Crema. Pizzighettone è in festa. Un caffè in luogo dell’aperitivo. L’ennesimo. Qualche telefonata. Poi è tempo di muoversi. Di provarci, di andare. A vincere.

Ci siamo

Tifosi ospiti? Nella voce del vigile urbano fa capolino la routine. Del resto, chi vuoi che passi di qui a quest’ora? Lo slargo della gradinata è vasto. Inaspettatamente aprono i botteghini. Cinquecento biglietti invenduti vanno via in dieci giri d’orologio. Incontriamo degli amici. Brindiamo col Borghetti e non possiamo fare a meno di mettere a paragone l’inconsistenza di una tifoseria che mette in vendita altri tagliandi con la follia di un’altra che porta cinquecento persone a macinare 700 chilometri senza la sicurezza di assistere all’evento. Ci narriamo di quella volta che si giocarono la A a Pescara, contro la Reggina, in cinquanta. Non nascondiamo il disappunto. Oggi pareggeremo, lo dicono tutti. Lo affermano con sicumera. Perché si dice ciò che si teme. E in tanti, qui fuori dallo “Zini”, crediamo sia meglio perdere 3-0 che uscire con un pari. Entriamo, con la forza d’animo dei condannati. Facce di Foggia, facce conosciute, ovunque. Altro che quattrocento. Dei 2mila e passa rossoneri in curva (e in tribuna) almeno sette su dieci hanno visto l’alba a Vasto. Il cuore si riempie d’emozione, pompa esaltazione. I nostri avversari distribuiscono t-shirt rosse. Ci facciamo due conti in tasca e pensiamo a quanto debba essere comodo fare l’ultrà coi soldi del patron. Un coro chiama il nome di Giovanni Arvedi. L’evidenza s’è fatta carne. La nostra curva li richiama alla realtà: Dove eravate, a Foggia dove eravate... Crudele ma necessario: non ci si inventa tifosi, purtroppo. La squadra entra a tastare il terreno: facce tirate, espressioni tetre. Pensiamo: oddio, ma urliamo. L’incitamento è alto, identico a sé stesso, ripetuto centinaia di volte in questa settimana di passione: Andiamo, andiamo, andiamo a vincere.

L’attimo eterno

Il Foggia è compatto, convinto, seriamente disposto a giocarsela. Sento la pressione diventare impazienza. So che non perderemo. Lo capisco da come andiamo a pressare, a tentare l’anticipo. L’afa penetra nella pelle come inchiostro, come agente chimico. Si sbuffa, si soffre, si fuma, si suda, si salta all’unisono. Foggiàlè, Foggialè, Foggialè. Quando De Paula salta Bianchi, e questi lo atterra e va fuori, la pressione diventa ansia. Uno stato di pre-panico che non vuole rassegnarsi all’idea che potremmo anche non segnare, nonostante la superiorità numerica. Si scacciano gli incubi, ci si guarda attorno. Facce spiritate, occhi che puntano la preda e seguono l’aria fino a fiutare l’odore dell’erba gonfia di pioggia mattutina. Nella loro porta va un ventenne, Sirigu. Siamo undici contro dieci e manca un’ora. Il sangue vibra, disegna ghirigori nelle orbite. Incitiamo la squadra. Mondonico dovrà aprire spazi. Possiamo farcela. Il calcio d’angolo di Di Roberto al 47’ sfila alto, a parabola. Il ventenne esce ma viene scavalcato. Dietro di lui c’è Del Core. Lo sappiamo, anche se è dall’altra parte del campo. Intuiamo come andrà a finire, ma non quello che sta per succedere. Perché quando capiamo che la rete s’è gonfiata, il boato è la cosa più bella a cui mi sia capitato di partecipare negli ultimi dodici anni di calcio. Dal gol di Di Michele al “San Nicola”. Duemila folli. Duemila pazzi di gioia che si abbracciano, che cadono, che saltano, che sbucano dagli assembramenti. Dagli sguardi increduli e perduti. Per molti è pianto isterico, io ho le lacrime che forzano per uscire e non escono solo perché gli occhi mi bruciano troppo e troppe sono le persone da scovare, da abbracciare. L’arbitro fischia che ancora esultiamo. Non badiamo più all’afa, al sudore, alle polveri sottili. Gridiamo, come invasati, la gioia dell’attimo. E cantiamo, col la potenza bellica dei momenti sublimati. Il coro è il solito. Ma ha perso i contorni dell’auspicio. Stavolta è una promessa, e gronda dal diaframma, dallo stomaco, più che dall’esofago. Urlata contro il centrocampo e la Sud in maglia rossa: Andiamo, andiamo, andiamo a vincere.

Andiamo avanti così, per dieci minuti. Dieci minuti rapidi ed eterni, indimenticabili. La voce si fa elio per evaporare, leggera. Il cuore è ostaggio d’una maschera di piombo. Adesso è tutto perfetto. Lo abbiamo sperato, lo abbiamo inseguito, lo abbiamo atteso. È giunto. Dieci contro undici all’intervallo, in vantaggio di un gol. Verranno avanti a testa bassa, poi perderanno la lucidità. E con essa la testa. Stiamo attenti ai troppi ammoniti a centrocampo, prepariamoci a reggere l’urto, la cavalcata disperata dei lombardi. Attenti alle distrazioni. Adesso è tutto in mano nostra. Dovremo essere concentrati e cinici. Poi taglieremo lo spazio come crema catalana. E sotto la Nord rossonera ci abbandoneremo al delirio del raddoppio. All’ottantottesimo, ne siamo certi. La pressione diventa terrore e la grazia ci tocca la fronte. Adesso si, è tutto perfetto.

...

About a boy

Lo diceva Morozzi. Lo diceva Nick Hornby. Di sicuro qualcuno prima di loro, con o senza libri all’attivo. La squadra del cuore non si sceglie. Non è un amico, non è un amante. È un’alchimia prenatale, o il frutto del contesto, delle nenie, delle saghe, delle leggende di quando – nella culla – ancora guardi la giostra con le api di plastica. Ed entri nel dormiveglia estatico al suono di un carillon, come oggi senti le pareti del cranio rimbombare della voce di duemila quasi sconosciuti impegnati in un coro. La squadra del cuore non si sceglie. Lo conferma l’incisione profonda nelle mie corde vocali. Le lacrime che s’affacciano, a sfidare la razionalità delle cose per cui si piange sul serio. Il vuoto pneumatico, il silenzio senza vie di fuga. Le immagini che si rincorrono nel cervello, come suggestioni tennistiche. Non ci siamo detti niente fino a Bologna. Chi non fissava il contachilometri puntava il vuoto. Di tanto in tanto uno scossone della testa. E capivi che ognuno cercava di cancellare i propri demoni.Ho provato a rendere questa squadra, quei colori, esterni a me stesso. Non fino all’estraneità, certo, ma in ogni caso ho provato – in questi ultimi anni – a trasformarla in un amico di banco, di quelli che finita la scuola continui a salutare senza frequentare più così da vicino. Avevo pensato di essere guarito, d’avercela fatta. Pensavo d’averla scomposta, razionalizzata, resa adulta quella passione da ragazzino. È bastato un attimo. Quell’attimo indicibile, incomprensibile, irriducibile in cui la ragione diventa ipotesi, in cui il coro si fa assioma, per rendermi conto di esserne ancora follemente innamorato.
Il mare all’altezza di Giulianova m’è parso scuro come la mezzanotte. E mentre qualcuno ipotizzava Celano, o Mezzocorona, o Portogruaro, l’abitacolo s’è gonfiato della voce di Michael Stipe. Everybody hurts. Tutti soffrono. Il silenzio s’è fatto invadente. Ho ripensato al trenino degli amici e dei parenti, al cantico della Nord all’intervallo. Al fatto che avrei voluto accostare le due immagini ed intitolare questo pezzo From disco to disco. Invece niente. L’incubo nuovo ha scacciato il vecchio. E m’è tornato in mente che avevo un’ora di sonno. La testa è caduta sul petto. Ho sognato luglio. I calendari. E la trasferta di Marcianise. E da dormiente ho mormorato: Andiamo, andiamo, andiamo a vincere.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Posso immaginare cosa significhi dopo tanti anni lasciare Cremona in quel modo e ripartire per tornare a casa. E poi so che eravate davvero in tanti contro i soliti 4 presenti allo stadio a cremona. Un grosso augurio. Stefano 79 (Bergamo)

Anonimo ha detto...

Beh, si, è stata dura. Perdere senza aver mai perso è dura. Perdere contro chi non stimi, lo è ancora di più (non me ne vogliano i cremonesi, ma sono inesistenti).
Noi eravamo un po'.
Ho trovato una foto, ma siamo ancora al riscaldamento. Rende l'idea, però.
http://www.tifonet.it/fotogallery/foto.php?codice=62986

Grazie dell'augurio.
Ne avremo bisogno.

Lob2

Anonimo ha detto...

Ho un collega che lavora nel mio stesso ufficio che è un tifoso della Cremonese. Ricordo benissimo che il giorno dopo era più impressionato da voi che contento per il risultato. Ho dato uno sguardo a questa foto e bisogna dire che voi la C non la meritate.

Mance Vudic ha detto...

Voglio ringraziarti per il tuo aiuto. Mia moglie mi ha lasciato alcuni mesi fa e avevo bisogno di lei nella mia vita perché la amo così tanto. Ho contattato chubygreat quando ho letto di lui su Google, come ha restituito i propri cari. Mi ha dato la certezza e mi ha detto che avrà bisogno delle cose che ho fornito e nei due giorni seguenti dopo aver lanciato l'incantesimo, mia moglie è tornata da me. Grazie chubygreat. Puoi contattarlo con i seguenti dettagli. Chubygreat@gmail.com o Whatsapp 2348165965904

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