17/09/08

Io e il mio doppio, faccia a faccia allo Zaccheria

di Lobanowski 1

Lo sapevo, prima o poi sarei stato messo di fronte alle mie responsabilità. La città in fondo è piccola. Qualcuno, non ricordo chi, mi aveva riferito che alle orecchie di Pino, amico d’infanzia, era giunta la voce che io utilizzassi il suo nome e cognome per le trasferte. Prima, molto prima, di schedature, tornelli, osservatori e stronzate simili. Fine anni ’80 inizi ’90. Pleistocene, per il calcio.
Chi ha letto il libro “Juve o Milan? Meglio il Foggia” già sa: a via Saseo, dove c’era la sede del Regime Rosso Nero, non erano per nulla rigidi quando prenotavi il pacchetto trasferta, pullman più biglietto dello stadio. Bastava un nome, uno qualsiasi. E poi c’erano amici a fare da garanti. Così, per evitare denuncie o richieste di risarcimento danni, un giorno mi venne di dare il primo nome che mi passava per la testa. Mi uscì Pino Ferrazzano. L’intenzione, ovvio, non era di mettere qualcun altro nei guai, anche perché non era richiesto indirizzo o recapito telefonico. Il nome serviva giusto per urlare la lista dei prenotati al parcheggio della Maddalena, prima della partenza. Ancora oggi se provate a navigare nel sito Paginebianche, inserendo Ferrazzano nel motore di ricerca saltano fuori 61 voci. Un cognome molto diffuso, a Foggia. Lo feci mio. Continuai ad usarlo, svariate volte per svariate trasferte. Mi ci affezionai a tal punto che firmai con quel nome alcuni articoli per un settimanale: ricordo che una volta serviva il contributo di un festeopatico a completare uno speciale sul Natale: Pino Ferrazzano fu pronto a dire la sua. Avevo costruito nel tempo un mio doppio.

Pino Ferrazzano, l’originale, ieri sedeva dietro di me, due gradoni più in alto. Era nelle cose che prima o poi l’avrei incrociato, ma che l’incontro avvenisse proprio nella Sud dello Zaccheria… Jung diceva che l’uomo incontra sulla sua strada dei segni, che sono come cartelli indicatori per la propria vita. Il vis-à-vis con Pino allo stadio cosa vorrà dire? Che il Foggia tornerà sulla luna, sempre per citare il libro? che il destino ci riserverà nuovamente trasferte all’Olimpico e San Siro? Chissà. Forse la risposta è nelle mani dell’Osservatorio. Che a furia di citarlo, i giornalisti, come entità immateriale che tutto dispone nella vita dei tifosi, sembra parlino del Castello di Kafka.

Insomma, ieri vado per voltarmi e salutare, e nel mucchio di facce note c’è Pino. Che subito allunga un braccio a indicarmi come per dire “t’ho beccato!”. Qualcuno prova ad aizzare la folla contro il giornalista, categoria che notoriamente (e giustamente, aggiungerei) riscuote lo stesso consenso di dentisti, notai e poliziotti. Uno addirittura scende, mi viene di fianco, scherza e mi riferisce che Pino ha messo un avvocato, che vuole citarmi in giudizio. Pretende dei diritti. Poi si fa serio e dice: “io l’ho letto, dalle cose che hai scritto è come se c’eri davvero, come se stavi con noi, in trasferta”. Che cazzo, questo pensa abbia tirato a indovinare? Io lui me lo ricordo. Lui evidentemente non si ricorda di me. Quasi venti chili e 15 anni in più si fanno sentire. Porca miseria.

Non ho dato tanta corda all’emissario di Pino (che a fine partita m’ha salutato senza sorridere. Mi sa che se l’è presa davvero). La partita era già cominciata. Quello voleva discutere mentre sul campo il Foggia aveva preso a schiacciare la Cavese nella sua metà campo. All’appuntamento pensavo di essere arrivato in ritardo, al chiosco non ho visto nessuno è ho tirato diritto. Sono entrato che la curva era desolatamente vuota. Nessuno della combriccola che si va formando. Un Borghetti saltato per nulla. Il tizio alle porte che m’ha bucato l’abbonamento (dopo un primo passaggio al lettore ottico) con faccia triste annuncia urbi et orbi che la “pacchia” è finita. Messaggio agli scrocconi. “Dalla prossima in casa ci sono i tornelli”. Come dire i nazisti alle porte di Stalingrado. Novelli, durante il riscaldamento, si ferma a parlare con i quattro della difesa che giocheranno titolari. Non so cosa avrà mai detto, ma stavolta di svarioni non se ne sono visti. Il terreno di gioco è passato dall’essere adatto per una gara di beach soccer a deposito di fango. Lo spazio riservato agli ospiti è desolatamente vuoto. E’ così da qualche anno, con la Cavese. E non è la stessa cosa, senza la tifoseria avversaria.

Matteo, mio cugino, ha saltato la gara col Potenza. Vive e lavora a Campobasso. Però gli sono venuti i sensi di colpa, e così dopo la gara di Vasto è corso a fare l’abbonamento. Ci salutiamo che mancano 20 minuti all’inizio della gara. Quelli dell’età di Matteo a stento la ricordano la serie A. Se la meriterebbero: lui è uno dei tanti che ha girovagato più anni tra C1 e C2 appresso ai rossoneri, che in categorie superiori. Inizia la partita e il Foggia lascia ben sperare: c’è più intensità, la squadra è corta, corre, pressa a tutto campo la Cavese. Salgado e Del Core si cercano, Troianello a destra corre come un forsennato sulla parte di campo che il Foggia privilegia per attaccare. Rare volte i terzini accompagnano, si sovrappongono. Fuochi d’artificio a salve, comunque. Tre tiri in porta, uno solo nello specchio. Nella seconda metà del primo tempo (che dieci minuti dopo il fischio d’inizio registra il forfait di capitan Pecchia, guai muscolari) il rimo cala. Gli aquilotti saltano la loro metà campo e giocano con lanci lunghi a servire le punte, che non sono in giornata. Solo Tarantino prova una serpentina, ma in area il tiro gli parte fiacco. E meno male che Camplone, il mister che siede sulla panchina campana, è un altro annunciato come “scuola Zeman”, calcio totale, pressing, fuori gioco. Sarebbe ora di finirla con certe scemenze: non esiste nessuna scuola, Zeman è figlio unico, grazie a dio. Chi sbaglia e chi vince, lo fa di suo. Perché siamo certi che il boemo farebbe la corsa a riconoscere come sui discepoli quelli vincenti, addebitando ad altri i perdenti. Quello è fatto così.

Nel primo tempo c’ho messo dieci minuti a capire il perché di tanto accanirsi del pubblico contro l’estremo cavese. Dopo mi sono ricordato che in porta sotto la Nord c’era Marruocco, un ex poco gradito. Ha raggiunto una finale play off, col Foggia, due anni fa. Ma nella memoria di tutti sono rimaste le sue cazzate. Certo, sempre meno di quelle viste a Ravenna. Il personaggio è guascone, non brilla in simpatia. Quando nella ripresa viene sotto la Sud quelli del Regime lo applaudono, lui ricambia. Ma la gran parte della curva lo accoglie a suon di fischi. Francesco si preoccupa dello stato di confusione che simile atteggiamento potrà provocare nell’uomo Marruocco. E ci prende meglio di un Crepet: il Foggia pressa e prova a costruire gioco anche nella ripresa, con una Cavese non pervenuta. Colpisce un palo solo su punizione. A 15 minuti dalla fine una mano ce la dà proprio il nostro ex portiere. Calcio d’angolo dalla destra, sulla palla Mancino. Cross teso a scavalcare la difesa. Il portiere esce e col pugno prova ad allontanare la sfera. Va a vuoto. Così la palla termina sulla testa di Salgado, che sull’altro palo ha il compito facile di appoggiare nella porta sguarnita. L’ultimo gol in maglia rossonera el Pescador l’aveva segnato allo stesso modo, ma di piede: finale di andata contro l’Avellino, passaggio smarcante di Mastronunzio, lui che appoggia nella porta vuota. Dalla Sud parte il coro “Marruocco uno di noi”. Ancora Francesco preoccupato sulla percezione che avrà il portiere. “Capirà l’ironia?” è la domanda. Unanime la risposta: “Probabilmente no”.

Passa poco dall’esultanza e Novelli dimostra -qualora ce ne fosse bisogno- che è lontano anni luce dalle mentalità kamikaze di Zeman. Che il gioco del calcio ha una fase d’attacco e una fase di difesa, egualmente importanti. Con la seconda che diventa predominante se ti capita di essere in vantaggio. Così toglie una punta e inserisce un difensore. Tre centrali a respingere il prevedibile assalto a testa bassa della Cavese. Burzigotti, quello appena entrato, quello che a Vasto ha servito su un vassoio il gol a Bazzani, liscia di testa una palla: invece di respingerla la manda alle sue spalle, in calcio d’angolo. In curva ci si abbandona ai commenti più svariati sul ragazzone con un passato nell’Alto Adige. Referenze buone per un alpino. O per un mulo. Qui dovremmo giocare a pallone.

Il tempo che resta alla fine scorre senza pensieri. L’arbitro fischia tre volte e la Sud chiama sotto la curva la squadra. Che l’importante sia vincere –come, non importa- lo comprendono tutti. Questa è la terza serie. Lunedì mattina ho incrociato Franco, uno malato del Foggia: “Se qualcuno vuole vedere lo spettacolo che se ne vada a teatro”, mi dice. Ahi voglia uno come Di Bari a spiegare alla Gazzetta dello Sport che il pubblico foggiano è di bocca buona (sempre sto cazzo di fottuto e stupido retaggio zemaniano, come se il gioco del calcio l’avesse inventato lui). Novelli s’è lamentato dei fischi piovuti sulla squadra nel primo tempo. Io non li ho sentiti, mi sarò distratto. Comunque, caro Di Bari, noi siamo ridotti alla fame, altro che discorsi da gourmets del calcio. Mangeremmo pesce crudo pur di salire di una serie. Va bene così, anzi benissimo. Tanti 1 a 0 senza soffrire. Scuola Caramanno. Magari ci ripetessimo anche a Foligno.

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