19/09/08

Scatti di scarto

di Lobanowski 2
Le casse – di certo un modello salvadoregno politicamente conforme e certificato – hanno cominciato a gracchiare Bandiera Rossa. Nella versione classica, quella semi-orchestrale, imponente e nazionalpopolare degli anni ‘50. Tant’è che un vecchietto ha fatto gli occhi sognanti ed ha confessato all’amico: “Mi ricorda quando ero piccolo così”. Che, da un rapido raffronto tra la profondità delle rughe e il segno con la mano, doveva essere prima che dimettessero Togliatti. Il coro similrusso ha riempito i buchi neri della zona pedonale: Avanti popolo, alla riscossa. Gli alti troppo acuti, i bassi inesistenti, l’arrancante pressione sulle valvole del mangianastri (!), il livello di consunzione del nastro, l’amplificazione da socialismo tascabile, come direbbero gli Offlaga. Inquinamento acustico allo stato puro. Sul banchetto di plastica, il programma pieghevole. Stasera grande dibattito su un tema inedito: sviluppo, legalità e governo del Mezzogiorno. Ospiti d’eccezione, forbiti e competenti. Il sindaco di Gela, il vicesindaco di Foggia, un dirigente scolastico, un paio di politici e il direttore di un quotidiano scandalistico da 50 centesimi a prestazione. La voce di Luzzi in my mind: Consiglio, Crocetta, Salatto, Leccese, Mongiello, Napoletano, Paciello. Allenatore: Zdenek Zeman. Manco a dirlo. Avanti popolo, tuona il cannone, Rivoluzione, rivoluzione.
All’imbocco dell’area dibattiti hanno piazzato uno stand. La musica s’infila sotto il tettuccio metallico come polvere in una piccionaia. Dai campi al mare alle miniere, Rosse bandiere, Rosse bandiere. Una mostra. La più ovvia delle mostre ruffiane. Il Foggia ai tempi di Zemanlandia. Davanti a me ci sono sguardi estatici, luccicori fuori dall’ordinario, stupori e commenti emozionati. Me ne accorgo da come inarcano le schiene quelli della prima fila. Bandiera rossa finisce. E, cosa ancor più rimarchevole e tutt’altro che scontata per il contesto, non riattacca. In sua vece incalza un raggelante Venditti. Un signore grassottello con la faccia rude si volta e fa per andarsene. Mi dedica uno sguardo che è tutto un programma. Il rimpianto per i tempi andati gli si disegna in volto come un tatuaggio tribale. È il mio turno. Avanzo. Una quindicina di foto per ciascuna serie e cinque serie in tutto. Scatti di scarto, senza dubbio alcuno. Fotografie che nessuno ha comprato, seconde e terze scelte rimaste a fare spessore nel fondo di qualche stipetto. Zeman che fissa il campo, Zeman che fuma, Zeman che urla ai suoi di suicidarsi. E qui e lì alghe riaffioranti: il diavolo rossonero che saluta Eranio (che fa per andarsene), Maldini coi capelli corti e la faccia da bambino, l’Italia di Walter Zenga che affronta Cipro allo “Zaccheria”. Qui e lì i cartellini indicano partite e risultati. C’è il 5-2 dell’ “Olimpico” con la Lazio, il 4-1 di Torino con la Juve, il 3-3 interno con la Fiorentina, il 2-8 col Milan. Che divertimento! Quanti bei ricordi! Nell’autunno del 1991, una fredda mattina di ottobre, per andare a scuola presi una circolare che non era l’MD. Mi ritrovai a Rione Diaz. E dì lì in aperta campagna. Arrivai in classe all’inizio della quarta ora. Mio padre mi smontò l’Amiga 500. Che tempi. Dovrei organizzare una mostra sullo scambismo nei trasporti pubblici a Zemanlandia. Col presidente dell’Ataf e qualche autista al seguito, a inaugurare.
“Mai come nel periodo di Zemanlandia la storia di una squadra diventa anche storia della città. Nella fenomenale apparizione del Foggia in A con il «ceko» lo spirito rossonero torna ad essere desiderio di confrontarsi, voglia di socialità, eccezionale spirito competitivo per ridisegnare non solo le gerarchie sportive ma quelle urbane”. Filippo Santigliano è un giornalista preparato, uno concreto, che non si lascia abbagliare dai miti, uno che bada al sodo. Resto basito: perché ha deciso di scrivere una simile madornale falsità? Nel 1991 le sere erano buie come negli Ottanta. C’erano due locali e andavamo a comprarci i panzerotti o gli scagliozzi all’angolo di via Manzoni. Ai giardini c’erano i ragazzi più grandi di noi. L’ora di educazione fisica la facevamo al “Giannone”, ed ogni volta ci sobbarcavamo un chilometro a piedi per raggiungere la palestra. Foggia era lo specchio della depressione. Una città triste e nera, completamente obnubilata dal miracolo calcistico. Una specie di Medjugorie del pallone: realtà di provincia in crisi di pre-panico salvata dall’apparizione provvidenziale. E da questa schermata, come un tossico in estasi. Sarà la mia adolescenza che riaffiora, ma la voglia di socialità e il desiderio di confrontarsi, io, proprio non me li ricordo. Mi ricordo invece la Foggia luminosa e in mutamento del 1994, le comitive in giro, i locali che spuntavano come funghi, i ragazzi e le ragazze sulle scale del Classico il sabato mattina, il centro sociale. La Foggia ottimista del ’95, del ’96. La movida, certo, ma anche la partecipazione, l’associazionismo, i gruppi che rifiorivano, le band che scavalcavano l’oblio per un attimo di gloria. Se devo pensare ad un periodo in cui le gerarchie consolidate potevano mutare sotto la spinta dell’effervescente e sopravvalutato mondo giovanile, penso alla pancia dei Novanta. Non certo ai suoi inizi. Attribuendo meriti ai Cesari, in questo strano gioco al parallelismo, dovrei pensare a Catuzzi, a Rossi, a Burgnich. In realtà non ci penso affatto. Penso al Circolo Gramsci, e poi alla sede di Ya Basta! con la stella rossa sul mercato, al circolo di Rifondazione con i ragazzi seduti fuori, alle sfide a pallone con i polpottisti del Filorosso. Penso all’Università, alla nuova sinistra che nasceva nelle aule dell’ex-tribunale riconvertito: Samarcanda, l’Udu. Penso alla nuova generazione che s’affacciava ai palazzi. Al mutamento prossimo venturo che non s’è avverato, poi, quando quei ragazzi nei palazzi ci sono entrati per davvero. Penso a quello, alla bellezza di quei giorni, alle radiose possibilità, e mi sale la bile. Ma non la ricollego ad un allenatore. Non è colpa di zio Tarcisio se oggi Piemontese è il segretario del Pd. Così come non era merito suo il fermento. Per Zeman vale lo stesso discorso. Zeman è stato l’allenatore della nostra squadra. Nulla di più, nulla di meno. Un bene fungibile, intercambiabile, ininfluente (come tutti i mister, come tutti i dirigenti, come tutti i calciatori) ai fini del nostro amore per una maglia, che viene sopra tutto e tutti e che tutto e tutti trascende. La maglia. Quell’alchimia da brivido, causa di gioie infinite, alibi per catastrofi esistenziali, spunto per lacrime amarissime. La maglia del Foggia. Del Foggia. Perché io tifo Foggia. Zemanlandia non esiste. Non è mai esistita.
Nel Museo Rossonero di un sito foggiano un tale ha provato a relativizzare il Tributo a Zeman che altri avevano imbastito. Un utente è intervenuto ed ha sancito: Quando Zeman allenava il Foggia tu avevi il ciucciotto in bocca. Filippo Santigliano, invece, nella sua presentazione alla Mostra della zona pedonale, scrive di un momento davvero felice, quando i foggiani facevano a gara per dire «sono di Foggia, la nostra squadra è il Foggia». Le due affermazioni si sono toccate. L’una con l’altra, in un attimo cerebrale. Una fiammata, improvvisa. Il treno speciale che ferma al binario, dopo quattro ore di odissea sulla linea adriatica. Con l’Udinese, la domenica prima, c’erano meno di 7mila paganti. Ad Ancona abbiamo appena perso 3-0. Ha segnato Zarate, quell’oggetto curioso. Una doppietta. L’unica della sua carriera, in Italia. Il “Dorico” è alle spalle. Foggia si spalanca davanti. Voglia di tornare a casa e spegnere tutto. Basta scendere dalla carrozza e, zaino in spalla, percorrere il viale. La sera è caduta a sprazzi sulla città. I negozi sono chiusi. Siamo oltre seicento ed usciamo in blocco. Poi ci separiamo: ognuno per sé. All’altezza della chiesa della Madonna della Croce, un vecchio si stacca dalla comitiva con una gomitata confidenziale all’amico. Mi si para davanti. Allunga le sue dita ossute verso la mia gola. Tocca la sciarpa che ho al collo. E, sghignazzando, dice: “Ancora appresso al Foggia vai?”. Lo scanso con una manata irrispettosa. Lui torna a ridere col compare, a ripetere per chissà quante volte ancora la stessa scenetta con tutti i reduci dalle Marche che incappavano nel suo presidio disfattista. Questa è Foggia, pensavo. Aveva ragione la Sud quando cantava: Siete sempre un pubblico di merda. La consapevolezza è un attimo conseguenziale: la sciarpa che ho in gola, è quello il mio segno distintivo, la mia cifra di scarto rispetto ad una realtà penosa. Io c’ero mentre il Foggia veniva infilato. Ci sono stato fino alla fine. E domenica ci sarò ancora. E così sempre. Perché non mi interessa la recita, mi interessa la compagnia stabile. E non c’è sconfitta o categoria che possa farmi cambiare idea, raffreddarmi come una pietra sputata da un cratere. Non è così per molti, troppi miei concittadini. Seguo il legame del pensiero: ecco perché per loro è così importante Zeman. Perché loro vanno a vedere lo spettacolo e s’affezionano ai ruoli, agli interpreti. Io no.

1 commento:

NicKappa25 ha detto...

Questo è uno dei post più belli.

Nick

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