22/09/08

Quel che deve accadere, accade

di Lobanowski 2
Domenica 21 settembre, Foligno-Foggia 1-0

Il bip incessante della sveglia ovale giunge come previsto. Alle 7:20. Devo issarmi dal letto. Devo controllare alcuni dettagli. Primo fra tutti: il grado d’affidabilità della dicitura Doc. Più volte gli intenditori hanno garantito: se il vino che bevi è buono, non avrai mal di testa il mattino dopo. Ne va della credibilità del Made in Italy, dell’intera produzione vitivinicola, dell’immenso indotto. La notte è stata generosa: Aglianico, Primitivo di Manduria, persino un Montalcino. Sapevo della levataccia domenicale, certo, ma era un compleanno: non un passo indietro. Questione di cavalleria medievale. Oh-issa. Bene, tutto bene. Un lieve cerchio, passabile. Una garbata manata sulla sveglia. Mente locale. Va fatta una sola telefonata, regolato l’ultimo appuntamento. L’acqua scorre fredda, il caffè mi riporta in vita. All’appuntamento sono puntuale. Gli altri, più o meno, pure.Decidiamo di non segare l’asta della bandiera. In macchina ci sta, sebbene occupi due posti e risulti fastidiosa, a lungo andare. Ma sempre meglio d’inscenare questo assurdo sacrificio primitivo. Non siamo mica bestie. Le bandiere hanno vita. E le aste non sono da meno. Al bar i propositi sono ancora incoscientemente tecnici. Mi sembra naturale, adatto alla fase di lallazione della giornata. Si almanaccano gli assenti, si nutrono dubbi sul centrocampo, si dibatte dell’attacco, si finisce il cornetto. E i più coraggiosi si lanciano in pronostici. Inutili e dannosi, i pronostici. Ma significativi degli umori e delle aspirazioni, come e meglio di radiografie al torace. Si vince, è poco ma sicuro. È solo questione del quanto a quanto. Il più ottimista è Lello, che spara un 4-1 per noi. Io mi astengo. Voglio un punto, possibilmente uno zero a zero. Mi guardano svogliati, è sempre la stessa storia. Ma a me piacciono sul serio gli zero a zero. Certo, vincere è altra cosa. Ma infiliamo i piedi nell’asfalto e stringiamo i denti e gli occhi: il radioso avvenire va scartavetrato. Zolla dopo zolla.
La tradizione è un’invenzione. Lo diceva Hobsbawm, lo dicono i sociologi, lo diciamo noi. Ha un solo precedente storicamente riscontrabile, al momento: Cremona, in quel devastante coast-to-coast di maggio. Arrivare con largo anticipo in città che non sono Castellammare di Stabia, Cava dei Tirreni o Salerno, è un classico del flusso pasquettistico. Ma giungere imbandierati, insciarpati, militarmente disordinati, e mettersi a fare i gradassi e i gagà in centro, è volgare, oltre che palesemente irrispettoso. Roba che succedeva a Castel di Sangro, a metà Novanta e che, fortunatamente, tende a non perpetrarsi nel nuovo millennio. Benedetta Mentalità. Per la semifinale play-off, spinti dall’adrenalina, ci mettemmo in viaggio nelle prime ore di buio totale, e superammo Piacenza che mancavano ancora sei ore al fischio d’inizio. E piuttosto che mostrare i pettorali saturi d’orgoglio dauno sotto il Torrazzo, decidemmo di allungare fino a Pizzighettone. Stavolta abbiamo due ore di margine netto. E fedeli alla regola, approfittiamo dell’ultima uscita della superstrada per entrare a Tolentino. Che da lontano sembra un presepe. Che se ne sta, arroccato e nobile, su di un colle alla nostra destra. Varchiamo una porta, passiamo un ponte, costeggiamo le mura. Parcheggiamo a due passi dal centro. Ci possiamo sgranchire le gambe. Possiamo fare due passi. E l’opulenza di quelle case decorate, di quelle strade ordinate, ci si spalma sulla pelle come fuliggine. Ci guardiamo costernati. Qui la gente non urla. Qui la gente non suona i clacson. Una bambina per chiamare la mamma, distante diverse decine di metri, usa gli stessi decibel che a noi sarebbero stati appena sufficienti per chiedere di passare il pane a tavola. Qui la gente non passeggia. Qui si godono lo spettacolo. Un oste sistema i bicchieri. Il cozzare del vetro si sente fino alla fine del vicolo. Nella piazza principale ci sono le bancarelle. Cazzo, come a Pizzighettone. Ceska mi ha appena chiamato: “Sei a Tolentino? Mi compri i Marshmellows?”. Non comprendo l’assioma, ma avanzo verso il viale, la zona pedonale, la gioielleria, il negozio equo e solidale. Una seconda piazza con la cattedrale e l’onnipresente iconografia di San Giorgio. Il bar. Consumiamo in piedi, guardando la tv. Ohlmert s’è dimesso. Dall’esterno non giunge un fiato. E quando usciamo ci sorprende il fatto che ci sia un’intera comitiva di tedeschi, adattatasi in fretta al tono di voce della ricca provincia italiana. Un cortile annuncia cappelloni giotteschi. Entriamo uno dopo l’altro nel chiostro. Il soffio del vento è appena percettibile. Qui la gente è educata a non schiamazzare. Qui le cose scorrono con metodo e calma. Qui si produce operosamente e si rispetta l’ambiente. Guardo i brutti affreschi. E la noia mi assale: “Uagliù, o ce ne andiamo di qua entro cinque minuti, o impazzisco”. Gli altri annuiscono. E sui gradini della chiesa torniamo ad utilizzare il nostro tono di voce consueto. I tedeschi ci guardano con attenzione. E, dall’inizio alla fine, ascoltano il racconto epico di quando Marazzina ad Andria sparò alto sulla traversa. E quel tizio si mise a urlare che non ci sava neanche padre Tardiff. Non ridono. Non conoscono padre Tardiff, probabilmente. Ma penso sappiano chi era Marazzina. Fuggiamo da Tolentino, non senza prima aver appreso che in città esistono gli Sconvolts e – addirittura – una Brigata Tafferugli. Giordano si chiede: “Ma perché noi siamo stati così sadici da inventare un coro che faceva Non ti preoccupar che tanto dopo segna Colacone?”. Ci guardiamo perplessi. Giordano fissa i negozi. Attorno è silenzo. “Dopo quando?”.
Seguiamo l’indicazione: Parcheggio ospiti. Ci ricongiungiamo al gruppo romano. I biglietti comprati a Foggia sono diversi da quelli del botteghino. Noi abbiamo i tagliandi da mercoledì. Quelli comprati a Foligno sono più belli. C’è finanche il falchetto. Manco a dirlo. I poliziotti chiedono di mostrarlo. Poi fanno problemi per la bandiera: troppo grande, fuori dimensione. Ci mettiamo a discutere. Pare ci siano delle misure standard. Un poliziotto convoca il suo superiore, questi giunge, guarda il vessillo e, ad occhio, esprime il suo consenso. Abbiamo perso cinque minuti di vita e, a momenti, ci tocca pure dirgli grazie. Paradossi. Quello che mi perquisisce trova fuori luogo la fibbia della cintura. Troppo grossa, sostiene. Segue nuova tribuna politica. Stavolta la spunta l’uomo in divisa. I jeans vanno giù di qualche centimentro ed io continuo a domandarmi chi mai avrei potuto colpire, se me l’avessero lasciata: gli altri foggiani? I folignati? E perché? Il campo sportivo è un impianto discreto, adatto, capiente. Sembra anche ben tenuto, il che non mi sorprende affatto. I gradoni sono metallici. Gli scarponi fanno rumore. Giordano mi passa la sua bandiera, Guido sventola quella fuori misura. Quelli dietro non vedono e cominciano a rumoreggiare. Alla fine del primo tempo deciderà di emigrare sul cucuzzolo del settore. Non siamo tanti, ma siamo sufficienti a far sentire la nostra voce. Procediamo all’ostensione della bandiera catalana. Omaggio a Bremec. Omaggio alla Catalogna. La prospettiva del campo è radente, la partita si intuisce. Si lotta a centrocampo, il Foggia tiene la difesa alta, ma non riesce a verticalizzare. Io sventolo. Il Foligno non impensierisce, ma neppure subisce l’iniziativa. Lo zero a zero mi sta bene. Sventolo.

Dietro di noi c’è Fiorucci. Più sopra, circondato da tra ragazze bionde, c’è Colomba. Due allenatori nel settore. I perfidi insinuano che la panchina di Novelli già scotti. Il Perugia gioca a Pescara. Rischia anche Galderisi, oggi. Il Foggia della ripresa è una squadra trasformata. In peggio. Nel primo tempo s’è limitato a non offendere, adesso tiene con difficoltà gli argini. Il Foligno dell’ex-De Paula si fa più intraprendente. Guido, in cima al settore, è una statua che regge il vessillo. Il vento fa il resto. Dietro si è fatto il vuoto. Sventolo. Quelli in maglia blu portano avanti il baricentro, Del Core lotta vanamente, Salgado è pigro ai limiti dell’indisponenza. Prendiamo gol di testa. Quel che deve accadere, accade. Mi accorgo, dal piccolo boato, che nello stadio c’era altra gente oltre noi. Andiamo sotto. Proviamo ancora a cantare, a sostenere la squadra. Manca poco. I nostri non costruiscono e, come se niente fosse, elaboriamo la seconda sconfitta su due trasferte. Una sconfitta senza gioco, senza attenuanti.

Sui muri ci sono scritte altisonanti: Foligno padrone dell’Umbria. Perdiamo un’ora tra bagni pubblici, metano e grappe varie. Un pullman ci si piazza davanti. Cinquanta chilometri di curve, poi il presepe di Tolentino a sinistra, Macerata, Civitanova. Ci risiamo. Di nuovo la A14, compagna di mille viaggi della speranza. Finiti, quasi sempre, come oggi.

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