17/09/08

Punk is not dead

di Lobanowski 2

Domenica 14 settembre, Foggia-Cavese 1-0

Un tizio vestito d’arancione, come un tifoso della Pistoiese. Tre poliziotti al suo fianco. Il varco che s’apre. Una trentina dentro. Il varco che si richiude. Il vociare della plebe in scomposta fila. Due minuti due. Il varco che si riapre. Dentro. Un secondo varco. E l’esperimento-sicurezza si ripete, uguale a sé stesso. Prefiltraggio.Non c’è bisogno di leggere quel che scriveva il mai troppo compianto Valerio Marchi. Né di accelerare corsi in sociologia delle folle. Siamo vittime di un autoinganno, cavie nel laboratorio dell’approssimazione, testimonial d’eccezione di un rito di suggestione collettiva. In tanti la prendono a ridere. La danza che stiamo inscenando non ha alcun senso. Né utilità pratica. Fossimo tutti violenti con precedenti penali, staremmo semplicemente procedendo a scaglioni. I tornelli non ci sono, ma vengono evocati di continuo. Come le mura del Palazzo di Federico II. Un ragazzino chiede di essere trascinato dentro, per via della giovane età. Viene respinto: “Dalla prossima in casa ve li scordate sti mezzucci”, commenta uno steward. Dalla prossima. Perché neppure oggi c’è il controllo. Neanche l’abbonamento viene passato al tester, come le solite voci di corridoio garantivano. A me sta bene così, non fraintendetemi. Ma non posso fare a meno di fantasticare sull’idiozia dell’intero caravanserraglio. Non vengo perquisito. Me ne compiaccio. Salgo i gradoni. La curva sembra più vuota della gara col Potenza. Ma è la gradinata, densamente spopolata, a farmi impressione. I cavesi non ci sono. Senza di loro, non è la stessa cosa.

Il Foggia indossa la nuova divisa ufficiale. Piacciono le bande nere sulle maniche. Ha righe strette, come l’anno passato. Io continuo a ritenere che le fasce debbano essere tre o quattro, al massimo. Come quando avevamo Banca Popolare di Pescopagano a farci da sponsor. Il terreno di gioco è appesantito ed appare debilitato. Non piove. I cori sono fiacchi e coinvolgono poco le ali. In campo non sembrano esserci disegni sufficienti a far parlare di moduli o di gioco. La Cavese si difende. Non pensa neppure lontanamente ad avanzare il baricentro. Angelo Q. è contro il calcio moderno. Canta, con gli altri: Perché non resto a casa. Però in mano ha un cellulare di ultima generazione, che ha bypassato alla velocità della luce la candida radiolina d’antan. Ed una connessione che gli permette di studiarsi Livescore in tempo reale. Come va considerato il fenomeno?
Alla fine dei primi quarantacinque, si è sullo zero a zero.
Il sito di Repubblica. Lello mi gira la notizia. Hanno ammazzato un ragazzo, un ragazzo del Burkina Faso, un nero, per non fare come quelli che sottolineano il di colore manco fosse un’appartenenza. O, sul serio, un colore. Ucciso a bastonate in testa. Nausea. Il razzismo, il machismo, il disagio. Tutto in regola, certo. E la deresponsabilizzazione. L’idea che si possa porre fine ad una vita, così. Che si possa tutto, perché il diverso è meno protetto, meno tutelato, meno garantito. Una teoria fine, appuntita come una freccia avvelenata. Una colpevolezza, un concorso nel proprio omicidio, pronti a venire a galla: “Era un ladro, stava rubando”, diranno i giustificazionisti. Coi parametri delle misure sfalsati come il contachilometri di una vecchia Cinquecento. Fuori dallo stadio ci sono dei mega-manifesti del “super-tifoso” Emilio Cavelli, che invitano a sostenere Vladimir Luxuria – “tifosa del Foggia” – nella sua scalata all’Isola dei Famosi. Dietro di noi commentano animatamente. È un dato: il diverso, se ancora non è un nemico utile a sfogare frustrazioni, è sempre un buon selvaggio. Se non suscita immediata ripulsa, può e deve generare sollazzo. E dal grado di sollazzo, a volte, dipende la ripulsa. Luxuria è un trans, Vendola un frocio, il ragazzo di Milano un negro. La prima parla dialetto e dice cose schiette e sboccate. E fa ridere. È la più simpatica del terzetto. Ma conosco anche neri che recitano frasi in crocese, per divertire l’uditorio. O gay che si prendono in giro per risultare simili al cliché di chi, coi gay, vuole parametrare la propria eterosessualità. Diciamoci le cose come stanno: se il “deviato” non suscita l’ilare complicità del “normale”, è come se avesse fallito la sua funzione sociale. E questa è la stessa mentalità che i colonialisti inglesi portarono nelle Samoa.

I'm not singing for the future
I'm not dreaming of the past
I'm not talking of the fist time
I never think about the last

Il secondo tempo comincia col Foggia più arrembante, ma scoordinato e confuso. AV mi fa notare che, di lato, qualcuno timidamente sta rumoreggiando. È un paradosso – si scalda – ogni anno sono tutti d’accordo che la squadra fa schifo, ma poi pretendono che vinca dieci a zero ogni partita. Ha ragione da vendere. È una contraddizione tipica della condizione del tifoso foggiano (e di chissà quanti altri). Di quello più tiepido, più occasionale (e si può essere occasionali anche frequentando la curva domenicalmente da dieci anni). Le ali della Sud sono zona di raccolta di simili personaggi. Un tempo lo era la Nord. “Io, se abbiamo chiarito che la squadra non può fare altro che salvarsi, allora dico che uno zero a zero interno con la Cavese non mi va bene, mi va strabene”. La teoria non viene compresa, ma le critiche, che avevano cominciato a fare capolino anche qualche gradino più su, si smorzano. Merito del tono. E sull’onda lunga della tensione strisciante, e della vittoria tattica sui vicini, pensiamo sia bene affondare il coltello fino all’elsa. “Adesso con Zeman non saremmo stati zero a zero. Saremmo stati 4-1 per loro… e ci saremmo divertiti tantissimo”. Ironia che giunge al cuore del problema. Qualcuno, che si sente particolarmente chiamato in causa, borbotta con il vicino. Poi segna Salgado. Marruocco, l’ex, va in tensione: protesta contro l’assegnazione di un corner. È umorale, il nostro ex-portiere. Di sicuro sta ancora pensando all’arbitro quando smanaccia l’aria, toglie il tempo al difensore e permette al cileno di insaccare di testa il più semplice degli 1-0. Ci siamo. La Cavese dovrà uscire dalla roccaforte. Ha dieci minuti di tempo. Non ce la farà mai, pensiamo. E non ce la fa. Festeggiamo. Ma, al contempo, facciamo sapere come la pensiamo. A voce alta, messaggio nella bottiglia per quelli che vanno allo stadio come a teatro: “Ci sarebbe andato bene anche il pari”. Gli occhi attorno ci fissano. Recepiscono. “In fondo ci dobbiamo salvare...”. Qualcuno scende i gradini e fa per allontanarsi. La squadra si decide tardi a venire a salutarci. Ma una volta sotto, il coro è coinvolgente. Solo il gruppo sopra di noi va controcorrente: Merde siete e merde resterete. Dice. Rivolto all’undici che riempie le sacre divise, occasionalmente Legea e a righe strette. Ci voltiamo e scoppiamo a ridere. Punk is not dead.

Now the song is nearly over
We may never find out what it means
Still there's a light I hold before me
You're the measure of my dreams
The measure of my dreams

1 commento:

Anonimo ha detto...

Le Vespe mi hanno deluso due volte..nel 1994 e nel 1999..due finali per la B vendute sono troppe..ora le seguo si, lunedì ho visto il posticipo e devo dirti che sarei felice se va bene quest'anno (ha un presidente davvero ottimo, dal dopoFiore nn si vedevano)..si vedrà! La serie A sempre seguita, da bambino tifavo Inter e JuveStabia..

Pier!

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