01/09/08

Noi siamo Borghetti

di Lobanowski 2

Domenica 31 agosto, Foggia-Potenza 1-0

Il segnale acustico è inconfondibile. Il vecchio Nokia in preda alle convulsioni nella tasca del jeans, a testa in giù sullo schienale della sedia. Un sms. Angelo scrive: “Sono emozionato, ma pronto alla contestazione”.
Si ricomincia. È la prima. La lunga attesa è agli sgoccioli. Anzi, è già finita. Perché nel calcio, ultimo rito collettivo vivo sotto la cenere dell’individualismo straccione, quel che conta è prendere parte: ed un preparativo addobbato a dovere conta quanto – e a volte più – dell’evento in sé. L’avvento conta più del Natale. La quaresima più della Pasqua. L’attesa del Palio più del Palio. La prima serata di Sanremo più dell’ultima. L’Osservatorio è in fibrillazione. Le questure, i reparti celere, i prefetti, le società. Nella piramide tridimensionale dell’emergenza creata ad arte, tutti i gradi dell’organizzazione – giù, giù fino ai giornalisti di Rai e Mediaset – sono in spasmodica attesa che qualcosa possa accadere. In tanti (molti più di quanti ne possiate immaginare) lo sperano caldamente. Diversi ceri a diversi altari sospetti sono stati santificati prima della prima liturgica. Fatto sta che lo stesso super-ente alla Sicurezza nazionale in materia di stadi, ha chiuso lo “Iacovone” di Taranto e concesso ai napoletani di raggiungere Roma e ai gobbi di scendere a Firenze. Un esordio spinoso. Ieri sera si raccoglievano scommesse sui nuovi pianti greci a cui avremmo dovuto assistere dopo l’esodo degli azzurri nella capitale. A mezzogiorno è giunta la prima Ansa: “Tafferugli nella stazione di Napoli”. Lo spirito paternalista – che questo Paese mutua pari pari dal cattolicesimo più deteriore – s’è impossessato dei primi sguardi torvi. Come se qualcuno volesse dire, all’intero mondo degli ultras (e dei “semplici” tifosi, perché no): Avete visto? Vi lasciamo liberi di scorrazzare per mezz’ora, e questo è quello che succede.

Alle 14,10 il chiosco di Salvatore, a San Ciro, è già vivo e pulsante. Sembra una slot-machine di quelle da muro, coi sensori sensibili. Due Borghetti, 3 euro. Il carovita investe anche le oasi dell’Unesco. I ben informati consigliavano di recarsi alle porte con sufficiente anticipo. Del resto lo “Zaccheria” ha ottenuto l’agibilità in extremis e fino a ieri sera alcuni bar cittadini vendevano i tagliandi dietro ostensione di un documento di riconoscimento. Alcune prevendite si spingevano fino al numero di cellulare. Si garantiva la gestione elettronica dei posti numerati, precondizione d’obbligo per evitare l’esordio a “porte chiuse”. Pazze risate. La battuta più gettonata riguardava il numero di fila e di seggiolino. Delirante, per una curva che i seggiolini non li ha. Lo strano sovraffollamento alle transenne che fungono da primo prefiltraggio, altro delirante reperto del dopo-Raciti, ha di fatto accelerato il secondo giro di birra. Una fila disordinata e scoordinata, larga più che lunga. Poi l’intervento risolutore di un eroico supereroe, che con invidiabile nonchalance ha divelto una transenna e creato il varco. Come a Porta Pia. Per una frazione di secondo ho incrociato lo sguardo dello streward in arancione. Poi quello ha detto: “Ecco, è finito a schifo” e tutti hanno riso grassamente. E anch’io. Al secondo prefiltraggio un padre disperato ha allungato il figlio oltre la staccionata, donandolo alle forze dell’ordine. Famiglie disgregate. A cosa siamo giunti. Poi anche queste transenne sono volate via. E ci siamo ritrovati. Abbiamo deciso: i tornelli sono barriere architettoniche. Ci vorrebbe una pubblicità progresso. Tutti dietro la bandiera, munita d’asta leggera e snodabile. Un bijou. Il caldo è perpendicolare e umido. Più che sudare, si gronda. La mia testa lucida spicca. Mi bucano la tessera. Siamo dentro. A Barcellona in un bar di boliviani c’erano dei poster. Poster come quelli che di solito ci sono nei ristoranti italiani nel New Jersey o a Malibù. Soggetti tipici: la Torre di Pisa, il Colosseo, il Duomo di Milano. Nel bar boliviano di Barcellona c’era una bidonville. Ecco. Adoro questo stadio per la stessa ragione per cui quei boliviani adorano la loro nostalgica distesa di baracche con la fogna a cielo aperto. Lo adoro per quel che rappresenta. Per quel che rappresenta di me. Mio fratello, che si è sorbito lo scempio col Barletta in Coppa, mi aveva chiesto: “Torni allo Zaccheria dopo il Nou Camp… Non ti fa effetto?”. Guardo il cemento armato cadente, bisognoso quanto meno di una passata di calce e vernice, il chioschetto e i cessi pubblici, e sono finalmente in grado di rispondere. Certo che mi fa effetto. Quello è uno stadio, questo è il mio stadio.
Il settore è lo stesso. In alto lievemente sfalsati sulla destra, guardando la curva dalla curva stessa. Oggi poi siamo particolarmente montani: dietro di noi c’è un solo gradino. Manca Daniele, per procura eletto sbandieratore e alfiere del gruppo. Manca Gianni, frenato dal lavoro. Ma le facce conosciute ci sono tutte. Ostentiamo un boxer rossonero della Wanted. Partiamo col coro, sulle note di Bandiera gialla:
Quando vedrai / Sventolar questa mutanda / Tu saprai / Che qui si canta / E l’igiene tornerà.
Siamo consapevoli che il limite tra goliardia e disimpegno è labile. Maneggiamo la materia grigia del limbo. Ma nessuno di noi si sogna di infrangere l’abusato paragone tra il dogma religioso e la fede calcistica. Di fronte c’è un buon migliaio di potentini. Fanno sciarpata mentre le squadre entrano in campo. Sembra la Casertana, o l’Amburgo, il Potenza. Noi in rossonera, con le fasce strette. Aborro. Dopo trenta secondi battiamo una punizione alla tre-quarti. Con orrore m’accorgo che l’intero undici, tranne il portiere, è nell’area avversaria. Spargo la voce tra i distratti. Questo va mandato a casa, subito. Zeman ha perso ancora, laggiù a Belgrado. È a otto punti dal Partizan, alla terza di campionato. Non ho voglia di fare la stessa fine. AV ricambia il fremito. Ci vorrebbe lo stendardo: “X Fisso”. È nell’aria, gira l’idea di uno scialbo pari. Stefano erano anni che non veniva allo stadio. Si sconvolge per il livello infimo di calcio espresso. In effetti sarà il caldo, sarà che sono le prime sgambature, ma sul terreno sabbioso ci si azzuffa senza mai dare l’impressione di possedere un’idea di gioco. La Sud canta, ma i cori non sono possenti. Riabituarsi alla categoria dopo aver sognato il salto è un impegno che richiede disciplina e dedizione. La stessa che Mattia ci mette a sventolare il vessillo della Cnt riconvertito ad uso civile. I primi quarantacinque minuti mi servono a riempirmi alcune lacune sulla formazione. Angelo mi ragguaglia. La ripresa. Ci siamo. La curva è più decisa, la squadra giochicchia. Sarà stato lo spavento per il gol che si è divorato l’unico giocatore nero del Potenza. Gli sono stati risparmiati i “bu” d’ordinanza. Grande sensibilità della gente di Capitanata. Cantiamo per la squadra, cantiamo per la maglia, cantiamo per un amico che ci raggiunge nel settore. Lui non sembra gradire. Poi segniamo. Inspiegabilmente. Siamo in vantaggio e ci resteremo. Uno dietro di me rimpiange il 4-3-3 originale, quello “divertente”. Mi limito ad osservarlo, come si osserva la Venere di Cirene. “Se volete divertirvi, andate a vedere i pagliacci”. Resistiamo. Dal settore dei potentini s’alza il coro. È massiccio, anticipato dal corifeo, scandito a sillabe, come di solito sono i cori massicci.
Noi / Siamo / Lu-ca-ni.
È un attimo. Il lampo di una Polaroid. Ceska s’accende come una lampadina. Parlotta con AV. In mezzo minuto la risposta si dipana sulle teste di quelle venti teste di cazzo che siamo.
Noi / Siamo / Bor-ghet-ti.
La gente si gira per ridere. Ormai siamo in corsa. Manca poco, il Potenza attacca e rischiamo di prenderle. Ma noi andiamo dritto-per-dritto. Ancora a scandire: Salutate la capolista.
Continuiamo ad oltranza, senza accorgerci del triplice fischio, degli applausi alla squadra. Quando rientriamo in noi stessi la curva sta saltando all’unisono: Chi non salta è pescarese.
Presagi.

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